Mentre definisce «una vergogna» la marcia del Pride che sabato ha portato duecentomila persone nelle strade di Budapest, Viktor Orbán è costretto a masticare un boccone amaro che non riesce a ingoiare. Una sconfitta maturata nella rete che lui stesso ha teso.

«Sono uno di quelli che non considerano l’accaduto motivo di orgoglio», dice a TV2 News, telegiornale dell’emittente ungherese filogovernativa. «Viktor Orbán è diventato il re del Pride», ironizza sui social Péter Magyar, leader del partito di opposizione Tisza.

Nessuno scontro, nessun blocco e, a oggi, anche l’uso delle telecamere con riconoscimento facciale disposte lungo il percorso per identificare e multare i partecipanti, non ha avuto conseguenze, come spiega Domani Aaron Demeter, di Amnesty international Ungheria: «C’è una piccola possibilità che la polizia ungherese emetta multe basate sul riconoscimento facciale, quindi non è assolutamente impossibile. Lo sapremo solo se le persone verranno notificate».

Un flop. Il partito di estrema destra ungherese Movimento Nostra Patria ha presentato una denuncia formale contro la polizia per aver «consentito» lo svolgimento del Pride. E ha anche accusato il governo di «aver ceduto alla lobby omosessuale».

Gli arresti di Istanbul

A quasi duemila chilometri di distanza, invece, in Turchia, il premier Recep Tayyip Erdoğan è riuscito a imporre un divieto totale. A Istanbul, la repressione è iniziata molte ore prima dell’inizio previsto del corteo. Le autorità avevano vietato anche quest’anno lo svolgimento dell’Istanbul Pride, come accade ininterrottamente dal 2015.

La manifestazione con lo slogan “Insistere sulla vita”, è stata ostacolata prima dal fermo preventivo della polizia, che ha individuato in mattinata decine di persone che volevano partecipare. Così, per eludere il blocco, gli organizzatori avevano diffuso indicazioni di ritrovo alternative per aggirare i presidi. Ma la risposta è stata immediata: decine di agenti hanno circondato quartieri considerati sensibili, come Ortaköy e Şişli, e fermato gruppi di manifestanti prima ancora che potessero radunarsi.

Non è servito. Secondo l’Associazione degli avvocati di Istanbul, almeno 54 persone sono state arrestate. Tra queste anche sei legali del Centro per i diritti umani, che avevano partecipato per monitorare il rispetto delle libertà fondamentali.

«Sono stati privati della libertà attraverso detenzione arbitraria, ingiusta e illegale», si legge nella nota pubblicata su X dal Centro. La prefettura di Istanbul ha giustificato il divieto con la necessità di tutelare «la pace sociale, la struttura della famiglia e i valori morali». Il governatore della città, Davut Gül, aveva annunciato il giorno precedente che «nessuna manifestazione che minacci l’ordine pubblico sarà tollerata». Tutti gli arrestati sono stati accusati di aver violato la legge n. 2911 sulle manifestazioni pubbliche (legge sui raduni e le manifestazioni).

Cartine di tornasole

L’omosessualità non è reato in Turchia, ma l’omofobia è diffusa e tollerata ai più alti livelli dello stato. Il presidente Erdoğan ha più volte definito le persone Lgbt come «pervertiti» e una «minaccia alla famiglia tradizionale». Il linguaggio delle istituzioni si è fatto negli anni più esplicitamente ostile. Le autorità vietano le manifestazioni Pride e reprimono duramente le proteste con arresti e violenze.

Anche le leggi approvate da Erdoğan mirano a criminalizzare la «promozione» delle identità Lgbt, rafforzando la marginalizzazione della comunità. Un approccio repressivo verso la comunità arcobaleno condivisa dal premier ungherese. Soltanto che Orbán agisce con divieti e censura, Erdoğan con arresti e manganelli. Stessa strategia, diversa intensità.

A Istanbul, i manifestanti immortalati dai video fuggono per non essere arrestati, nascondono volti coperti e urlano slogan. Il comitato del Pride turco ha anche riferito che le persone in custodia sono state sottoposte a torture e forme di abuso fisico e psicologico. La dichiarazione pubblica è un atto di resistenza: «Mentre lo stato impone alla società politiche che prendono di mira la nostra esistenza, sotto lo slogan dell’“Anno della famiglia”, noi continuiamo a coltivare la resistenza nel cuore della paura. Ci accusano di imporre la nostra “immoralità” alla società. Non abbiamo bisogno di imparare la morale da voi; ma sì, ci imponiamo. Siamo così visibili da costringere la polizia di Istanbul a fare lavori straordinari da due settimane. Abbiamo paura, ma non ci arrendiamo».

I due eventi mettono in luce una verità spesso trascurata: le marce dell’orgoglio non sono solo celebrazioni, ma cartine di tornasole della tenuta democratica. Dove i Pride sono vietati, repressi o ostacolati, lo sono anche il diritto di parola, la libertà di associazione e il dissenso. Dove riescono a svolgersi, indicano margini, talvolta minimi, di resistenza. I Pride restano un indicatore della libertà. Dove si fanno strada, la democrazia resiste. Dove vengono soffocati, è in pericolo.

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