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Molti illustri imprenditori in questi mesi sono finiti nel mirino delle autorità di Pechino. I grandi media occidentali non hanno dubbi: siamo di fronte a un “giro di vite” del governo contro l’imprenditoria privata.
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Questa però sembrerebbe una lettura parziale, dal momento che il 98,6 per cento delle aziende cinesi è costituito da Pmi con meno di 300 impiegati (dati 2020 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, Ocse).
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Xi Jinping e compagni ritengono che la Cina sia entrata in una «guerra di lunga durata» contro l’occidente sul fronte del commercio e della tecnologia. In quest’ottica, gli obiettivi strategici dell’indipendenza tecnologica da raggiungere attraverso l’innovazione autoctona, il ridimensionamento dei giganti del web, la repressione dell’istruzione non statale, appaiono al Partito non tanto come un “giro di vite” nei confronti dell’imprenditoria privata nel complesso, quanto come il tentativo di favorire determinati settori produttivi e obiettivi economici strategici in un contesto di conflittualità con l’occidente.
L’ultimo magnate cinese caduto in disgrazia è il sessantasettenne Sun Dawu, condannato mercoledì scorso a 18 anni di carcere per “finanziamenti illegali” e una serie di altri reati. Nel 1985 Sun aveva fondato, nella provincia dello Hebei, Dawu Group, diventato un conglomerato che impiega oltre 9mila persone e spazia dal core business dell’agri-food fino all’istruzione e al turismo. Il tribunale del popolo di Gaobedian ha spedito in galera anche due fratelli e due figli del tycoon, e multato la



