L’ultimo magnate cinese caduto in disgrazia è il sessantasettenne Sun Dawu, condannato mercoledì scorso a 18 anni di carcere per “finanziamenti illegali” e una serie di altri reati. Nel 1985 Sun aveva fondato, nella provincia dello Hebei, Dawu Group, diventato un conglomerato che impiega oltre 9mila persone e spazia dal core business dell’agri-food fino all’istruzione e al turismo. Il tribunale del popolo di Gaobedian ha spedito in galera anche due fratelli e due figli del tycoon, e multato la società per 4,6 milioni di dollari.

Nel 2015 Sun aveva espresso il suo sostegno alle vittime della retata “709”, 300 tra attivisti e avvocati che vennero arrestati il 9 luglio di sei anni fa. In seguito aveva criticato le autorità dello Hebei per la gestione dell’epidemia di suina africana e il governo centrale per quella di Covid-19. Infine, nel febbraio dell’anno scorso, aveva pubblicato una lettera aperta per chiedere le dimissioni di Xi Jinping.

Come Sun, altri illustri imprenditori in questi mesi sono finiti nel mirino delle autorità di Pechino.

I grandi media occidentali non hanno dubbi: siamo di fronte a un “giro di vite” (il termine “crackdown” ricorre ad nauseam in titoli e articoli) del governo contro l’imprenditoria privata. Questa però sembrerebbe una lettura parziale, dal momento che il 98,6 per cento delle aziende cinesi è costituito da Pmi con meno di 300 impiegati (dati 2020 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, Ocse). Secondo la stessa fonte queste Pmi generano oltre il 60 per cento del Pil nazionale, il 68 per cento delle esportazioni, creano il 75 per cento dei nuovi posti di lavoro. A partire dalla stagione di Riforme e apertura inaugurata da Deng Xiaoping, sono state queste aziende, e non Jack Ma e compagni, la spina dorsale del capitalismo cinese. Il rapporto dell’Ocse Financing SMEs and Entrepreneurs 2020 sottolinea che, «negli ultimi anni, la Cina ha rafforzato continuamente le politiche di sostegno alle Pmi».

Un “commissario” in ogni azienda

I rappresentanti del Partito sono ormai insediati in ogni azienda del paese. Dopo quella di Xi Jinping e del premier Li Keqiang, l’ultima voce che ha provato a rassicurare i padroni cinesi è quella di Liu He: «Spero che la maggioranza degli imprenditori comprenda le tendenze di sviluppo economico e sociale della Cina, analizzi con serenità la situazione e si assuma la sua responsabilità in relazione agli interessi generali del paese, rafforzi la sua professionalità e si sforzi di innovare per raggiungere uno sviluppo di alta qualità» ha detto martedì scorso il vicepremier e principale consigliere economico di Xi durante un forum dedicato alle Pmi a Changsha.

L’imprenditoria privata non viene repressa sic et simpliciter. Il Partito sta provando a spingere le pmi a innovare, mentre ridimensiona quei colossi ai quali per anni ha permesso di ingrandirsi in regime di monopolio, assecondando una crescita impetuosa e senza regole del commercio elettronico e dell’economia digitale, e sbarrando l’accesso ai mercati cinesi a Facebook, WhatsApp e alle altre big occidentali.

A Jack Ma – a cui il governo aveva bloccato nel novembre scorso la Ipo miliardaria di Ant Group e che ad aprile si era visto recapitare una multa da 2,8 miliardi di dollari per «abuso di posizione dominante» per Alibaba – è rimasta la consolazione dello scettro, donatogli da Forbes China, di filantropo più munifico del paese. Nel corso del 2020 Ma ha regalato oltre 493 milioni di dollari. Al terzo posto della classifica dei paperoni più generosi un altro capo di una big tech, Ma Huateng: il fondatore di Tencent ha elargito l’equivalente di 400 milioni di euro. Quinto, con 190 milioni di dollari, Zhang Yiming di ByteDance (TikTok), che ha creato un fondo a sostegno dell’istruzione nella sua Longyan (Fujian). Negli ultimi giorni la Jack Ma foundation assieme ad Alibaba e Ant Group non hanno badato a spese per aiutare le popolazioni della provincia dello Henan devastata dalle inondazioni. Il mese scorso – dopo che il governo aveva aperto un’indagine per «abuso di posizione dominante» sulla sua Meituan – l’amministratore delegato, Wang Xing, ha versato 2,3 milioni di dollari alla sua fondazione, per finanziare la ricerca e sviluppo.

Nel 2020 i primi cento capitalisti cinesi nella classifica di Forbes hanno donato 25,4 miliardi di yuan (il 37 per cento in più rispetto all’anno precedente) e il settore hi-tech è risultato il più magnanimo, con 7,8 miliardi di yuan, il 32 per cento del totale.

Il crollo delle azioni Tencent

Tutti folgorati da un altruismo incontenibile? La verità è che – come scrive South China Morning Post (autorevole quotidiano hongkonghese, di proprietà di Alibaba) – «le donazioni dei miliardari del settore hi-tech sono diventate più frequenti con l’aumento della pressione di Pechino sulle big tech per mettere lo sviluppo sociale davanti al profitto e servire l’agenda nazionale» del Partito. Un’indicazione, quest’ultima, ribadita dal ministero dell’Industria e dell’informatica, che ha appena lanciato una campagna per «risolvere i problemi dell’industria di internet».

Si tratta, certo, di mosse poco rassicuranti sia per gli imprenditori che per gli investitori del settore. Per Tencent quello appena trascorso è stato un mese nero: con 170 miliardi di dollari di valore di mercato andati in fumo, la compagnia di WeChat (il sistema di pagamento elettronico sugli smartphone di tutti i cinesi) è quella che, nel mondo, ha visto maggiormente deprezzate le sue azioni, -23 per cento. Secondo Bloomberg, sono cinesi nove delle dieci compagnie le cui azioni il mese scorso hanno perso più valore. Tra queste, oltre a Tencent, figurano anche Alibaba e Meituan.

In una nota Trivium China afferma che «la politica non ha intenzione di distruggere il settore tecnologico nazionale». Per la società di consulenza pechinese «piuttosto è chiara l’intenzione di porre un freno ai comportamenti monopolistici delle big tech, ai maltrattamenti degli impiegati e all’uso improprio dei dati».

Altri ostacoli

Negli ultimi giorni è arrivato anche il divieto di tutoraggio privato per i ragazzi che si preparano all’ultra competitivo “gaokao”, l’esame d’accesso all’università, un business miliardario, che coinvolge centinaia di migliaia di aziende, anche quotate a Hong Kong e New York. L’agenzia di stampa Xinhua, anche qui, ha provato a rassicurare: le ultime politiche restrittive rappresentano «una rettifica per favorire il benessere del popolo» dopo che «il settore aveva tradito l’essenza dell’educazione e il welfare pubblico».

La leadership cinese sapeva che avrebbe avuto a che fare a lungo col coronavirus, di cui negli ultimi giorni è esploso un focolaio importante a Nanchino. E si è preparata a un prolungato, duro confronto commerciale e tecnologico con gli Stati Uniti. Si tratta di condizioni affatto nuove, che hanno reso asfissiante il tradizionale imperativo del mantenimento della stabilità sociale.

Nelle prossime settimane dovrebbe essere varata una norma che ufficializzerà il ruolo, nel processo di scrutinio delle aziende che vogliono quotarsi nelle borse straniere, della Amministrazione del cyberspazio della Cina, l’ente che ha bloccato lo sbarco negli Usa di Didi per ragioni di “sicurezza nazionale” legate ai big data in possesso dello Uber cinese.

Xi Jinping e compagni ritengono che la Cina sia entrata in una «guerra di lunga durata» contro l’occidente (Stati Uniti in primis) sul fronte del commercio e della tecnologia. In quest’ottica, gli obiettivi strategici dell’indipendenza tecnologica da raggiungere attraverso l’innovazione autoctona, il ridimensionamento dei giganti del web che raccolgono capitali e rischiano di esportare dati sensibili all’estero, la repressione dell’istruzione non statale, appaiono al Partito non tanto come un “giro di vite” nei confronti dell’imprenditoria privata nel complesso, quanto soprattutto come il tentativo di favorire determinati settori produttivi e obiettivi economici strategici in un contesto di conflittualità con l’occidente.

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