Lungo la banchina degli autobus che portano verso gli insediamenti dei coloni israeliani ci sono più militari che civili. Giovani uomini e donne, poco più che ventenni, con indosso una divisa militare e un fucile a tracolla che dalla spalla corre fino al ginocchio, aspettano l’autobus che li porterà verso le guardiole che puntellano i confini tra gli insediamenti e i territori della Cisgiordania.

Questa banchina dove si accalcano dozzine di israeliani è defilata rispetto alla trafficata stazione centrale di Gerusalemme Ovest, dove invece si mischiano israeliani e palestinesi. Qui ci sono solo uomini con la kippah e donne con lunghe donne fino alle caviglie, tutti ebrei ortodossi.

Tra loro alcuni adolescenti ascoltano musica in cuffia accennando passi di danza che fanno ondeggiare il fucile indossato in spalla, come fosse uno zaino di scuola. Il punto di ingresso nei territori per i palestinesi è a circa cinque chilometri da qui, alla porta di Damasco, dall’altra parte della città.

Prendiamo il bus 360 per Efrat, una colonia a poco più di venti chilometri a sud ovest di Gerusalemme. Lì ci aspetta Aria, il portavoce dei coloni del villaggio. Una trentina di minuti attraverso le valli contese da israeliani e palestinesi, poi i dolci serpentoni fino alla cima su cui agli inizi degli anni Ottanta lo stato di Israele iniziò la costruzione di Efrat.

Aria arriva davanti al grande mall all’ingresso di Efrat. «Guardate laggiù, ai piedi di Efrat, c’è il villaggio di Ibrahim Abdallah. È praticamente attaccato a Efrat», dice indicando con la mano la zona a valle. «L’idea di separazione tra noi e loro funziona sulla cartina geografica ma non nella realtà. Gli arabi di Ibrahim Abdallah lavorano qui da noi, nell’edilizia e nei servizi. Vengono qui tutti i giorni. E tuttavia in trenta anni che vivo a Efrat abbiamo avuto rari episodi di terrorismo da lì», spiega Aria.

E continua: «Viviamo gli uni accanto agli altri. Loro non ci disturbano, noi non li disturbiamo. E siamo tutti felici», dice con un tono da politico in campagna elettorale.

«Delle volte ci si trova in certe situazioni senza rendersene bene conto», accenna, poi si spiega: «Quando mi avete chiesto l’intervista ho detto di sì senza rifletterci troppo», come se improvvisamente stesse realizzando la delicatezza delle sue dichiarazioni. «Noi chiamiamo questo posto non territori, né insediamenti, ma Giudea e Samaria», dice Aria.

«Viviamo in Giudea e Samaria perché è la terra di Israele nella sua interezza. Siamo qui perché Dio ci ha detto di essere qui come scritto nella Bibbia. E questa è l’essenza del sionismo». Aria ha un accento americano. Aveva dieci anni quando, alla fine degli anni Ottanta, i suoi genitori decisero di trasferirsi da New York nella terra di Israele. Furono tra i primi abitanti di Efrat.

Diritto internazionale

Ci sediamo su un muretto davanti a un parco con aria giochi ben attrezzata. Intorno ci sono bambini che tornano da scuola da soli. «Questo è un posto molto sicuro. Certamente più sicuro di New York». Aria prova a riprendere il filo della sua linea sulla conciliazione tra isrealiani e quelli che lui chiama arabi e non palestinesi.

«Come vedete qui la vita scorre tranquilla. La nostra quotidianità è fatta di lavoro. Il conflitto, la tensione, la guerra sono una invenzione dei media antisionisti», dice.

Ma quando lo incalziamo su alcuni temi centrali della questione israelo-palestinese – il diritto alla terra, gli insediamenti – la sua voce torna dura. «Se vai a vedere i documenti dell’inizio del secolo scorso, questa terra era arida, non c’era niente. Se leggi Mark Twain che ha visitato la terra santa, diceva “Nessuno vive qui, devi viaggiare per giorni prima di incontrare qualcuno”. L’idea che la nazione palestinese abbia secoli di storia semplicemente non esiste», dice quasi d’un fiato.

Oggi negli insediamenti abitano circa 450mila coloni, ebrei ortodossi arrivati dalle comunità ebraiche sparse in giro per il mondo. A questi vanno aggiunti i 220mila ebrei che vivono negli insediamenti di Gerusalemme est.

All’interno della cosiddetta Linea verde stabilita negli accordi del 1949 fra Israele e i paesi arabi al confine – Siria, Giordania ed Egitto – oggi vivono circa 8 milioni e mezzo di palestinesi. «Il processo di pace e gli accordi di Oslo non sono neanche un’opzione sul tavolo», tuona Aria, riferendosi ai negoziati del 1993 tra il governo israeliano e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina.

«Se pensiamo al futuro, noi israeliani siamo interessati a trovare una soluzione per questo problema. Tuttavia quando cerchiamo un interlocutore dall’altra parte, troviamo Hamas. Ma Hamas è nella lista delle organizzazioni terroristiche». Gli insediamenti israeliani nei territori sono considerati una violazione al diritto internazionale dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dalla Corte internazionale dell’Aja e dall’Unione europea.

Barack Obama nel corso del suo primo mandato chiese il congelamento delle costruzioni. «Obama dovrebbe pensare alla gestione dei suoi territori e non a quella dello Stato di Israele. Io non dirò mai agli americani dove e come costruire», commenta Aria stizzito.

Il governo

«Questa è la terra dello Stato di Israele e compete solo a noi decidere come gestirla». Per Aria c’è un problema di fondo nella narrazione su Israele: un diffuso sentimento anti-sionista. «Noi abbiamo paura a dichiararci ebrei quando siamo all’estero. In Europa come negli Stati Uniti ci spogliamo della kippah e di qualsiasi riferimento alla nostra identità perché abbiamo paura di aggressioni fisiche», dice.

«Questo ci convince ancora di più della necessità di avere una terra dove vivere al sicuro dall’odio esterno. Il governo di Netanyahu può piacere o meno, ma ha come principale obiettivo l’interesse dello stato di Israele. Netanyahu è un capo di governo responsabile, non ordina massacri di civili, non espropria i terreni dei palestinesi. E questa è la realtà», conclude Aria.

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