Più che l’escalation con Gaza – in fondo ce ne sono state diverse negli ultimi 15 anni – e forse ancora più che la pioggia di razzi sulla zona di Tel Aviv – la più fitta mai registrata dalla striscia, ripetutasi nuovamente ieri sera – a sconvolgere gli israeliani in questi giorni di guerra sono i disordini in corso nelle cittadine miste dentro ai confini internazionalmente riconosciuti del paese. Al punto che nei salotti televisivi dello stato ebraico si è cominciato ad agitare lo spettro di una “milhemet ezrahi”, una guerra civile. Nella tarda serata di martedì, dopo che dalle 21 i miliziani di Hamas e della jihad islamica hanno portato al massimo il livello dello scontro bersagliando il cuore pulsante di Israele, nelle strade di diverse cittadine arabo-israeliane sono andate in scena proteste spontanee di carattere violento contro l’offensiva su Gaza. Le più gravi a Lod, nei pressi dell’aeroporto Ben Gurion, chiuso nella notte del grande lancio di razzi, dove già lunedì un arabo-israeliano era stato ucciso dal fuoco di un civile israeliano durante una marcia in solidarietà coi palestinesi di Gerusalemme. Mercoledì sono continuati gli scontri fra la compagine ebraica e quella musulmana della città.

Ma anche ad Akko, l’antica città crociata sulla costa settentrionale, si sono registrati episodi di violenza. È stato dato alle fiamme il famoso ristorante Uri Buri, dove un vecchio signore dalla barba bianca che serve il pesce più buono del litorale è diventato negli anni simbolo della comunità ebraica locale. Da poco aveva ristrutturato un meraviglioso palazzo ottomano nel centro della città vecchia, trasformandolo in uno degli alberghi più lussuosi del paese. Allo stesso modo a Nazareth, Haifa, Jaffa e in città più piccole come Eksal, Kafr Manda, e Nahaf, la popolazione araba ha sentito il bisogno di rispondere al richiamo dell’escalation in corso. Ancora mercoledì, a Umm al Fahm, giovani arabi davano la caccia ad automobilisti ebrei – uno di loro è rimasto gravemente ferito dopo l’intervento della polizia.

Mentre aumentava il conto delle vittime da entrambe le parti – 6 gli israeliani e 53 i palestinesi uccisi, fra cui diversi importanti capi militari di Hamas, mentre continua la pioggia di razzi – è scoppiata una sorta di battaglia casa per casa, in cui abitazioni ed esercizi ebraici sono stati presi di mira. Ben presto – come a Ramla – gli ebrei israeliani hanno risposto per le rime, minacciando i cittadini arabi con “checkpoint” autogestiti in cui gli autisti arabi venivano attaccati. La minoranza arabo-israeliana, che rappresenta il 22 per cento della popolazione, è per molti aspetti ben integrata in Israele, e gode di pieni diritti, ma pur sempre mantenendo la propria identità palestinese.

Il coprifuoco a Lod

Il presidente israeliano Reuven Rivlin, che nel corso degli ultimi anni ha cercato di bilanciare le uscite più incendiarie del primo ministro Benjamin Netanyahu, è stato molto duro. «Le scene del pogrom a Lod e i disordini in tutto il paese sono imperdonabili», ha detto delle tensioni etnico-religiose interne, condannando «la folla araba esaltata e assetata di sangue che ferisce persone, danneggia proprietà e attacca luoghi di culto sacri agli ebrei». E ancora: «Strappare la bandiera israeliana e sostituirla con quella palestinese è un assalto brutale alla nostra coesistenza nello stato di Israele».

Non meno duro Netanyahu: «Le sommosse che abbiamo visto non sono sopportabili, ci ricordano eventi subiti dalla nostra gente in passato e non possiamo accettarlo, certamente non nel nostro paese», ha detto. Ecco allora che nella serata di mercoledì a Lod è tornato il coprifuoco. La popolazione è quasi del tutto vaccinata, ma forse rimpiange le chiusure serali dovute al coronavirus. Sono arrivate unità della polizia di frontiera – nota come “Magav” in Israele, e normalmente dispiegata in Cisgiordania. Il sindaco, che ieri aveva parlato di una “Kristallnacht” per gli ebrei locali, ora invita i residenti arabi a rimanere in casa.

Scontri di bassa intensità si sono già verificati negli anni in relazione a dispute locali – come la ristrutturazione di un palazzo a Jaffa costruito su un vecchio cimitero arabo – o in concomitanza con anniversari “nazionali” come quello della Nakba (la fuga dei profughi del 1948) o della Naksa (la sconfitta del 1967 con la caduta di Gerusalemme in mano israeliana). Ma per risalire a un precedente in cui la mobilitazione per la compagine palestinese fosse stata così violenta serve andare indietro di più di 20 anni, agli eventi dell’ottobre del 2000. In piena seconda intifada, la polizia israeliana uccise 13 arabo-israeliani durante proteste di solidarietà con Ramallah e Gaza.

I negoziati bloccati

Le scene di questi giorni sono destinate a minare la coesione sociale interna di Israele, soffiando nelle vele dei politici di destra che da sempre considerano la minoranza una “quinta colonna”. Eppure la fase in corso sembrava promettere sviluppi di senso opposto. I partiti dell’opposizione anti Netanyahu erano vicini a un accordo con i rappresentanti delle formazioni arabe per formare un governo che, dopo 13 anni consecutivi di al potere, avrebbe scalzato Bibi. In Israele, dove il coinvolgimento politico ad alto livello della compagine araba è più unico che raro, sarebbe stato un evento storico, ma è divenuto impensabile con la guerra in corso.

Anche il processo dei cosiddetti accordi di Abramo, e la normalizzazione dei rapporti fra Israele ed Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco, stavano favorendo la convivenza interna. Lo stesso Netanyahu, che negli anni si è reso protagonista di uscite dure contro la minoranza araba, durante un discorso lo scorso gennaio a Nazareth aveva dichiarato: «Se arabi ed ebrei possono danzare insieme nelle strade di Dubai, possono danzare anche qui, nello stato di Israele». Dopo le transenne disposte dalla polizia in pieno Ramadan alla porta di Damasco a Gerusalemme, i raid sulla Spianata delle moschee, la minaccia delle espulsioni nel quartiere di Sheikh Jarrah e l’escalation con Gaza, invece si parla di guerra civile.

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