I fantasmi del Golfo, il ruolo di al-Sisi e le mosse di Meloni: gli interessi in gioco sul piano Trump

Finite le celebrazioni e ultimato lo scambio di prigionieri tra Hamas e Israele, la fase due del piano di Trump è entrata nel vivo mentre nella Striscia proseguono gli scontri armati tra il gruppo palestinese e le gang rivali supportate dallo stato ebraico. Solo nella giornata di ieri si contano decine di vittime, mentre dalle macerie i soccorsi continuano a estrarre i cadaveri dei civili uccisi negli ultimi raid aerei dell’Idf. Ma in Egitto la diplomazia continua il suo corso. Il ministro degli Esteri egiziano, Badr Abdelatty, ha fatto sapere che sono stati selezionati i 15 tecnocrati palestinesi che comporranno il comitato che si occuperà di gestire la Striscia. «Dobbiamo dispiegarli per prendersi cura della vita quotidiana della popolazione di Gaza, e il Consiglio per la Pace dovrebbe sostenere e supervisionare il flusso di finanziamenti e denaro destinati alla ricostruzione di Gaza», ha detto il ministro. Tutti e 15 hanno già ricevuto l’assenso delle fazioni palestinesi. Samer Sinijlawi: «Gaza avrà un futuro solo se la governance sarà affidata ai gazawi» Too big to fail Se da una parte la narrazione mediatica e politica di Trump sull’accordo ricalca le modalità del “Too big to fail”, dall’altra tutti gli altri leader hanno ceduto volentieri il palcoscenico timorosi di sovraesporsi per un piano che sulla carta è spinoso e rischia di fallire per via della complessità della situazione. Ma la scelta comunicativa messa in moto dal presidente degli Stati Uniti non è solo un’esibizione narcisistica e del suo potere, ha anche l’obiettivo di far sopravvivere l’intesa esercitando una pressione pubblica molto forte nei confronti di Hamas e di Israele. Il discorso alla Knesset e quello pronunciato a Sharm el Sheikh vanno in quella direzione. Da al-Sisi a Erdogan Oltre a Trump, gli unici a essersi ritagliati uno spazio sono stati il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, padrone di casa, e il suo omologo turco Recep Tayyip Erdogan. Il primo aveva disperatamente bisogno di un accordo, nei mesi scorsi le tensioni militari sono aumentate a dismisura tanto che nel Sinai l’esercito ha ammassato 40mila soldati. C’era paura per un esodo della popolazione civile palestinese ma anche che Tel Aviv, dopo aver colpito Doha, potesse lanciare un raid mirato anche in Egitto contro le delegazioni di Hamas. L’altra motivazione a muovere al-Sisi è la necessità di riconoscimento internazionale per far passare in secondo piano le critiche sui diritti umani e per la sua posizione troppo debole nei confronti dello stato ebraico. Per Erdogan la motivazione è chiara, espandere la sua sfera di influenza già forte in Siria e tutelare i leader di Hamas con cui ha sempre dialogato, spesso fornendo anche esilio ai suoi vertici. Senza contare la sua esigenza di rientrare nel tavolo delle trattative tra Russia e Ucraina, una sua prerogativa fin dall’inizio della guerra. E l’accordo di pace siglato in Egitto, anche grazie alle sue pressioni, è un credito da vantare. La festa per gli ex detenuti: «Ma a Gaza è guerra civile tra Hamas e altre bande» I paesi del Golfo Lunedì a essere silenti sono stati i paesi del Golfo. Il Qatar da grande mediatore ha avuto una posizione di secondo piano, nonostante la presenza dell’emiro al Thani. Ma due assenze si sono fatte notare più di tutte: quella del principe ereditario saudita Mohammed bin Salman e quella del leader emiratino Mohammed bin Zayed. Ognuno ha inviato i suoi rappresentanti, ma viene da chiedersi come mai non si siano voluti fare immortalare con gli altri leader, in quella che molti considerano la foto del secolo. «Penso che volessero rimanere sullo sfondo e non esporsi anche perché in questa fase non hanno avuto un ruolo decisivo nella trattative, ma potrebbero averlo nel prossimo futuro soprattutto nella ricostruzione», dice Giuseppe Dentice analista nell’Osservatorio Mediterraneo (Osmed) dell’Istituto di studi politici S. Pio V. «La loro assenza è dovuta anche alla possibilità di vedere Israele in Egitto – cosa poi non accaduta –. Per bin Salman era importante allontanare qualsiasi speculazione pubblica intorno a una possibile ripresa di interesse di Riad sugli accordi di Abramo in assenza di un reale accordo di pace tra Israele e Hamas senza un chiaro riferimento al riconoscimento di uno stato palestinese. Discorso in parte riconducibile anche per bin Zayed, che deve rispondere a una opinione pubblica emiratina che dopo 5 anni di Accordi di Abramo riconosce una certa insofferenza», aggiunge. Una pace senza popolo: il paradosso di Trump e Netanyahu Gli interessi dell’Italia A Sharm el Sheikh erano presenti pochi leader europei, ognuno con le sue motivazioni. Prima fra tutte la premier Giorgia Meloni che per compensare le critiche dell’opinione pubblica interna vuole intestarsi in tutti i modi un suo ruolo nel futuro della Striscia e lo fa puntando sull’aiuto umanitario. Tanto che il ministro Tajani ha fatto sapere che vuole nominare Bruno Archi, come inviato speciale dell’Italia a Gaza. Una figura che conosce bene il panorama internazionale e che ricopre il ruolo di rappresentante permanente d’Italia presso l’Onu a Roma. Meloni ha messo sul tavolo gli aiuti, la sanità e anche un contingente militare pronto a garantire la sicurezza a Gaza. Una disponibilità con cui spera di ritagliarsi un ruolo nel futuro Board of peace che sarà presieduto da Donald Trump. E poi ci sono Emmanuel Macron e Keir Starmer. Il primo ha guidato insieme all’Arabia Saudita il processo che ha portato alla dichiarazione di New York per il riconoscimento internazionale della Palestina e spera di concludere il progetto, il secondo vanta buoni rapporti con Donald Trump e spera di non finire nella coda del treno degli altri leader dell’Ue. Il cancelliere Friedrich Merz, invece, punta sulla ricostruzione. Berlino ha già annunciato che ospiterà una conferenza nei prossimi mesi. I giganti assenti Tra le potenze era assente indubbiamente Pechino, che da sempre guarda alle questioni medio orientali con distacco. Negli ultimi giorni la Cina si è limitata a fornire la sua approvazione al piano di Trump senza esporsi tanto, adottando la sua classica postura diplomatica. E poi ci sono i russi e gli iraniani che hanno sostenuto il piano. Impossibile per Mosca inviare un emissario a stringere le mani dei leader europei. Ragioni simili per Teheran. I pasdaran non hanno potuto far altro che accettare l’accordo imposto da Washington e dai paesi arabi sunniti, dopo che negli ultimi due anni i suoi alleati hanno subito pesanti perdite. Hamas, Hezbollah e gli Houthi sono molto deboli – la tregua e il processo di pace permette loro di raccogliere le forze – e non riescono più ad alterare gli equilibri geopolitici. La tregua siglata è di fatto una resa per l’Iran che non può celebrare. Il portavoce del ministero degli Esteri Esmaeil Baghaei ha detto che Teheran non ha perso alcuna occasione a rifiutare l’invito di andare in Egitto. «A volte una partecipazione senza calcoli precisi può minare la posizione del paese», ha detto sottolineando il peso avuto dalla guerra dei 12 giorni condotta da Israele con l’aiuto degli Usa nella decisione di boicottare l’evento.