La produzione nell’Unione europea potrebbe iniziare prima dell’arrivo del verdetto sui “sussidi illegali” da cui le auto elettriche cinesi importate – secondo l’inchiesta della Commissione – traggono vantaggio. Sì, perché la joint-venture appena siglata tra Chery Automobile e la spagnola Ebro-EV Motors (che sarà il partner di maggioranza) assemblerà a Barcellona i modelli del brand Omoda in un impianto già pronto, quello che Nissan ha chiuso a fine 2021, lasciando senza lavoro 2.500 persone.

Le prime macchine cinesi a emissioni zero con l’etichetta “made in the EU” saranno dunque probabilmente disponibili già quest’anno. E a quel punto non ci sarà più dazio “compensativo” che tenga: presto acquisteremo city car, berline e Suv elettrici cinesi, di buona qualità e meno care delle concorrenti occidentali. Secondo una ricerca della banca svizzera UBS, per fabbricare nell’Ue una sedan Seal, BYD spenderà il 25 per cento in meno di quanto a Tesla costa l’equivalente Model 3.

Dopo l’annuncio – nel dicembre scorso – dell’avvio della costruzione a Szeged (nel sud dell’Ungheria, al confine con la Serbia e la Romania) di un grosso impianto BYD (capacità produttiva 200mila unità all’anno), Chery è la seconda grande casa automobilistica a puntare sull’Europa a 27.

Si tratta di due investimenti apparentemente molto diversi. Nel primo caso la protagonista è una compagnia di stato, nel secondo un’azienda privata; Chery è ancora legata ai veicoli con motore a combustione interna (Ice) e ibridi, BYD fabbrica solo quelli a nuova energia (Nev), elettrici e ibridi; quello del produttore di Wuhu (capacità iniziale stimata 25mila macchine all’anno) è un progetto meno ambizioso se paragonato allo stabilimento nuovo di zecca che la multinazionale di Shenzhen sta costruendo in Ungheria, che dovrebbe essere inaugurato nella seconda metà del 2025 e sfornare 200mila veicoli elettrici all’anno.

La strategia di Pechino

Ma la sostanza è che Chery e BYD (rispettivamente il primo esportatore di auto della Cina e il leader dei Nev che nel 2023 ha superato nelle vendite Tesla) rappresentano un’avanguardia che persegue la medesima strategia: quella dell’industria cinese di localizzare la produzione dei veicoli elettrici nell’Ue. Per BYD, Chery e le altre che seguiranno si tratta di una scelta obbligata. Quello dei Nev – assieme alle batterie e ai pannelli fotovoltaici – è diventato rapidamente uno dei “tre nuovi” settori trainanti l’economia cinese.

Negli ultimissimi anni, gli incentivi messi a disposizione nell’ambito della politica industriale di Pechino hanno fatto nascere 90 brand e 300 modelli: troppi anche per un paese con 1,4 miliardi di abitanti.

Con una quota di Nev già al 37 per cento delle auto nuove vendute in Cina nel 2023, che entro il 2026 dovrebbe raggiungere il 50 per cento, se i produttori vorranno aumentare le vendite di automobili, avranno due alternative: esportarle o assemblarle fuori dai confini nazionali. Il 2023 è stato un anno record: la Cina ha scavalcato il Giappone e, con 4,1 milioni di unità consegnate all’estero (+63,7 per cento rispetto al 2022) è diventata il primo esportatore di macchine per volumi. L’Ue rappresenta il primo mercato per i Nev cinesi, avendone accolto l’anno scorso circa il 40 per cento delle esportazioni globali.

Tuttavia tra quelli importati dalla Ue attualmente ci sono molte auto occidentali costruite in Cina, a partire da Model 3 e Model Y di Tesla. Tant’è che nella classifica delle 20 auto elettriche più vendute nell’Ue nel gennaio scorso figurava una sola auto cinese, la MG 4.

I limiti dell’export

«L’unica maniera per entrare davvero nel mercato europeo è fabbricare le auto nell’Ue, perché le esportazioni hanno costi elevati e perché gli impianti nell’Unione sono una garanzia contro il protezionismo», ci spiega Sergio Paba, professore di economia presso l’università di Modena e Reggio Emilia. In attesa del responso dell’indagine della Commissione Ue – che dovrà concludersi entro novembre –, anche la segretaria al tesoro Usa, Janet Yellen, nella sua recente visita a Pechino ha protestato contro quello che ha definito «grande eccesso di capacità produttiva» nell’industria verde cinese, minacciando di «non escludere alcuna misura» per contrastarlo.

«L’investimento diretto cinese è, da un punto di vista politico, difficilmente accettabile da parte di paesi come Germania e Italia, nei quali, per i produttori locali, significherebbe mettersi la concorrenza in casa», aggiunge Paba, che prevede che Pechino punterà sull’Europa dell’est o, come nel caso di Barcellona, su realtà dalle quali dovesse arrivare una forte richiesta di aiuto.

Quello dell’Ue è un mercato ricco, aperto, e nel quale, a partire dal 2035, le nuove auto in vendita potranno essere soltanto Nev. Le politiche di Bruxelles, rispetto alle quali i produttori continentali non riescono a stare al passo, hanno reso l’Europa a 27 il terreno ideale per testare le ambizioni globali dei produttori cinesi. Le previsioni parlano di una domanda di Nev nell’Ue pari a nove milioni di unità a partire dal 2030.

Lanciata nell’ottobre 2023 ex officio dalla Commissione, l’inchiesta per “sussidi illegali” che potrebbe determinare un aumento dei dazi d’importazione nell’Ue, attualmente al 10 per cento, fino al 25 per cento, rischia di avere l’effetto collaterale di accelerare il trasferimento nell’Ue di parte della produzione delle big cinesi.

L’ostruzionismo

In Italia l’elettrica cinese sembra una chimera. Prima la vicenda di FAW-Silk EV, il tandem tra il gigante di stato fondato negli anni Cinquanta a Changchun e il finanziere statunitense Jonathan Krane che avrebbe dovuto costruire una supercar elettrica a Reggio Emilia, finita con un’inchiesta della Guardia di finanza per “tentata truffa aggravata ai danni dello stato” (fondi del Pnrr in cambio della promessa di un investimento da oltre un miliardo di euro).

Nelle ultime settimane si è parlato del possibile arrivo di Chery, che alla fine ha preferito Barcellona. Forse anche perché lì potrebbe aggiudicarsi fondi pubblici. La Spagna infatti quest’anno bandirà due gare d’appalto – per un totale di 1,7 miliardi di euro – per prestiti e sovvenzioni per la produzione di veicoli elettrici nell’ambito del sistema di incentivi “PERTE”, che utilizza i fondi dell’Ue per la ripresa post-pandemia.

Inoltre il partner iberico Ebro-EV Motors ha spinto molto per il successo della joint-venture, mentre in Italia nei giorni scorsi l’amministratore delegato di Stellantis, Carlos Tavares, ha minacciato di dover prendere «decisioni impopolari» se un produttore cinese di veicoli elettrici dovesse insediarsi in Italia.

Poi si è affacciata l’ipotesi Leapmotor (una casa automobilistica non esattamente di primo livello), e infine Dongfeng, con la quale c’è una interlocuzione in corso, confermata qualche giorno fa da Qian Xie – responsabile per l’Europa della compagnia con quartier generale a Wuhan –che ha dichiarato che «l’Italia è uno dei maggiori mercati automobilistici europei e per una casa automobilistica cinese avere una produzione locale (che si ipotizza di 100milaveicoli all’anno, ndr) significa poter rifornire tutti gli altri paesi dell’area».

«L’Italia, per costi e burocrazia, non è un particolarmente attraente», conclude Paba. E infine ci sono due fattori che, a mio avviso, giocano a nostro sfavore: il fatto che il governo Meloni abbia deciso di non rinnovare il memorandum sulla via della Seta e il ruolo di Stellantis che, nonostante il suo disimpegno dall’Italia, pare continuare a esercitare una certa influenza politica».

Forse anche per questo alla fine sull’Italia potrebbe essere dirottata Dongfeng, una compagnia di stato (che con Stellantis ha una joint-venture che in Cina produce Citroen e Peugeot), che è sì, tradizionalmente, una delle “tre grandi” produttrici di automobili cinesi, ma che non è certo tra le prime nei Nev e che, dopo aver raggiunto un picco nel 2017 (con 2,83 milioni di consegne), l’anno scorso è scesa a 1,72 milioni.

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