Il ritorno della guerra in Europa orientale sta riaccendendo i riflettori su ampie porzioni di mondo che fino a trent’anni fa erano parte di un unico stato, l’Unione sovietica, o comunque nella sua orbita. Una di questa, tanto sconosciuta in Europa quanto instabile, l’Asia centrale, merita attenzione per le sanguinose turbolenze attraverso cui è passata negli ultimi mesi.

Fino ad ora, la Russia era l’attore più influente nella regione, potendo contare su forti legami storici, culturali e militari (sia soft che hard power). Ora però il paese è assorbito interamente dalla guerra che lui stesso ha scatenato e il suo esercito sta facendo pessima mostra di sé. Nella partita Ucraina la federazione e il suo presidente si giocano tutto e Mosca non può più impiegare le stesse risorse di prima in Asia centrale. Regione in cui pativa già da tempo la lenta ma efficace intrusione della Cina che ha già realizzato importanti investimenti nell’area, chiave per lo sviluppo dei progetti legati alla “nuova via della Seta”.

La scorsa settimana, un importante vertice dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai, svoltosi a Samarcanda, ha messo in evidenza quanto l’area sia strategica per Pechino. Una regione, inoltre, ulteriormente destabilizzata dal ritiro americano dall’Afghanistan e da croniche conflittualità che persistono dalla caduta dell’Urss.

Dal Kazakistan al Tagikistan

Ancor prima dell’inizio della guerra in Ucraina, il Kazakistan, lo stato più esteso di quell’area, sembrava contendere alla Bielorussia la palma di paese più in crisi dello spazio post-sovietico: grandi manifestazioni contro il carovita e i rincari energetici vi erano scoppiate nel gennaio scorso, represse poi nel sangue grazie anche all’intervento delle forze speciali russe.

Quelle ostilità avevano mostrato tutta la fragilità del nuovo presidente Kasym-Žomart Tokaev, succeduto nel 2019 al dimissionario Nursultan Nazarbaev (vero pater patriae, al punto che la capitale del paese, per anni chiamata Astana, da un paio di anni è stata rinominata Nur-Sultan). L’intervento della Russia pareva aver ristabilito l’ordine e messo in chiaro il tipo di legame in essere fra i due paesi.  

Qualche settimana dopo l’inizio della guerra in Ucraina, l’epicentro della violenza in Asia centrale si è spostato in Tagikistan, paese che non è mai riuscito a trovare una formula per convivere pacificamente con i pamiri, popolazione insediata nella regione autonoma del Gorno-Badakhshan, la quale occupa poco meno della metà del territorio dello stato.

I pamiri sono una popolazione culturalmente e religiosamente distinta dal resto del paese, che non è mai riuscito a integrarli completamente: dopo una guerra civile durata cinque anni (1992-1997), le violenze sono esplose ciclicamente in questa regione delicata (particolarmente nel 2012, 2014 e 2018), che segna anche il breve confine tagico-cinese e una buona parte di quello con l’Afghanistan, altro paese in cui sono presenti i pamiri.

Le violenze della scorsa primavera sono avvenute in seguito alle reazioni della popolazione locale all’inizio dell’ennesima “operazione speciale antiterrorismo” e ad assassini mirati di leader locali, spesso militari della guardia di frontiera che controllano il traffico lecito e non che transita per i confini porosi di questa parte del paese. L’“operazione” di questa primavera ha provocato una quarantina di morti e l’isolamento della regione dalle comunicazioni, su tutte la chiusura di internet.

Il Tagikistan si conferma uno dei paesi più deboli della regione, dal momento che si oppone al regime talebano insediatosi al proprio meridione, in Afghanistan, e non ha ancora risolto alcune dispute territoriali con il suo vicino settentrionale, il Kyrgyzstan. Queste dispute si sono infiammate nuovamente a metà settembre, quando gli eserciti dei due stati si sono scontrati, causando almeno una ventina di morti e un’ottantina di feriti, nonché la parziale evacuazione della regione kirghiza di Batken.

Dushanbe rimane profondamente legato a Mosca, a tal punto che il presidente Rakhmon avrebbe chiesto una sorta di approvazione del Cremlino prima di procedere con l’operazione “antiterrorismo”. Inoltre, non va dimenticato che la più grande base russa all’estero si trova proprio a Dushanbe, e il contratto con Mosca è stato esteso non molto tempo fa fino al 2042. Anche riguardo alla questione dei pamiri, il Tagikistan ha spesso chiesto il sostegno di Mosca nell’arresto e nell’estradizione di pamiri fuggiti o presenti in Russia, collaborazione che Mosca ha sempre fornito di buon grado.

Comunità autonome

In estate, a luglio, l’incendio si è esteso a un’altra entità autonoma, la Repubblica autonoma del Karakalpakstan, in Uzbekistan. Le fonti ufficiali uzbeke parlano di 21 morti e più di 200 feriti nelle violenze scoppiate a Nukus, capitale di quest’entità che occupa quasi metà del territorio dell’Uzbekistan, per gran parte desertica e disabitata.

La regione, passata dal controllo kazako a quello uzbeko nel 1936, ha iscritto nella costituzione dell’Uzbekistan, il diritto (teorico) di secedere dal paese tramite referendum. Nella nuova bozza costituzionale proposta dal presidente uzbeko Šavkat Mirzijaev a inizio estate, tale diritto è scomparso: questa l’origine delle manifestazioni, prima pacifiche e poi soffocate nel sangue. Mirzijaev si è recato per ben due volte a Nukus per negoziare, e ha alla fine reintegrato le tutele per il Karakalpakstan, in cui è stato instaurato lo stato di emergenza e internet disconnesso.

L’importanza di entrambe le comunità autonome è alta per le rispettive capitali, e nei due casi è evidente il retaggio dell’Urss sulla partizione della regione. Sia il Gorno-Badakhshan che il Karakalpakstan possono essere definite “invenzioni” sovietiche: grandi e strategiche porzioni di territorio assegnate a un’etnia differente rispetto a quella principale presente nello stato (i caracalpachi in Uzbekistan rappresentano circa il 5 per cento della popolazione), così da creare attriti interni che impedissero al soggetto di rafforzarsi. L’assonanza fra Gorno-Badakhshan e Nagorno-Karabakh non sta solo nella fonetica, ma anche nella politica.

Le conflittualità irrisolte degli stati centro-asiatici sono, insieme alle verticali del potere in favore di individui (o famiglie) che cercano di massimizzare i profitti derivanti dalle ricchezze naturali, i tratti tipici dei paesi di questa zona del mondo. Tali conflittualità ne indeboliscono il carattere di soggetti politici e continuano a favorire la Russia, la quale approfitta della debolezza altrui per mantenere la sua influenza e lo status quo, da queste parti come altrove.

Alla luce della perdita di prestigio, potenza e attrattività che ha coinciso, per la Russia, con l’aggressione all’Ucraina, ci si può legittimamente domandare se questa strategia potrà ancora funzionare per Mosca o se invece non contribuirà ad allargare il vuoto di potere nella regione, creando ancora più disordine dopo il ritiro americano dall’Afghanistan di un anno fa.

Il vuoto però non è condizione né desiderabile né possibile nella politica internazionale. Queste zone conoscono bene questa regola implicita che interviene nei rapporti fra gli stati: è proprio qui che si svolse il “Grande gioco”, termine con il quale si definisce la competizione fra impero russo e Gran Bretagna per l’occupazione dello spazio centroasiatico nel Diciannovesimo secolo.

Strategia cinese

Sul lungo periodo, la Cina pare il candidato più plausibile a riempire tale vuoto. In attesa dello svolgimento a novembre del XX° Congresso del partito, il Dragone ha per il momento tenuto fede alla propria strategia di espansione oltreconfine nel quadro della “via della Seta”, fornendo prestiti e finanziamenti a paesi in difficoltà economica (spesso impossibilitati a ripagare il debito in moneta sonante) per impossessarsi di infrastrutture e lotti di terreno o per estendere la propria influenza.

Dalle miniere d’argento di Tagikistan e Gorno Badakhshan alle autostrade in Montenegro, la strategia cinese fino ad ora è stata sempre la stessa. Riguardo al quadrante dell’Asia centrale, la Cina dovrà scegliere come affrontare tre componenti fondamentali: quella cultural-religiosa, quella geografica e quella russa.

In ordine inverso, Pechino dovrà decidere come trattare con Mosca, che ritiene la regione il suo giardino di casa; come affrontare la conformazione della regione, di difficile accesso fra zone montagnose (come il Gorno-Badakhshan) e desertiche, e con un enorme potenziale di conflittualità fra le regioni di montagna da cui sgorgano i fiumi e quelle desertiche che necessitano delle risorse idriche per sopravvivere (l’esempio del lago d’Aral, che si trova in parte in territorio caracalpaco, è lampante); in terzo luogo, la relazione con le popolazioni locali, culturalmente e religiosamente simili agli uiguri dello Xinjiang, rischia di rivelarsi delicata e di difficile lettura.

I rischi per Ankara

Un attore che invece continua a mostrare attenzione per queste zone è la Turchia, che cerca di sfruttare il vettore del panturchismo per affascinare i popoli turcici, insieme a quello religioso. Anche se le priorità di Ankara sono altrove, in teatri più vicini ai suoi confini, su tutti, la Siria.

Il rischio della Turchia, che al vettore panturco somma quello neo-ottomano, è di ritrovarsi in una situazione di iperestensione insostenibile. Con una moneta e un’economia in grave difficoltà, Ankara non può permettersi di adottare posture proattive quando non aggressive contemporaneamente nei Balcani, in medio oriente, in Africa, nel Caucaso e in Asia centrale. Quest’ultima regione, per via della sua lontananza geografica e del più debole legame con l’Anatolia, deve cedere il passo quando (se?) Ankara stilerà una lista delle priorità.

Ambizioni kazake

Se dunque da un lato il declino russo è palese, bisogna anche rilevare l’impossibilità o la non volontà di altri attori di affermarsi nello stesso spazio. Da un attore “locale” però, potrebbe arrivare una risposta: il Kazakistan pare intenzionato a trarre profitto dal conflitto innescato da Mosca in Ucraina, provando a smarcarsi dalla Russia.

Sul palco del Forum di San Pietroburgo di quest’anno, la kermesse putiniana per eccellenza, il presidente kazako Kasym-Žomart Tokaev ha chiaramente espresso il proprio disaccordo sulla questione del riconoscimento delle repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk, il casus belli adottato dalla Russia in Ucraina. Inoltre, pare che il Kazakistan ventili l’idea di proporsi all’Europa come fornitore energetico alternativo, sviluppando connessioni transcaspiche con l’Azerbaigian.

Al Forum di San Pietroburgo, lo stesso presidente ha ricordato la sua conoscenza degli ideogrammi cinesi, alimentando il sospetto di essere quasi un emissario di Pechino, che non può esprimere pubblicamente il dissenso per l’impresa putiniana in Ucraina e potrebbe aver usato il presidente kazako come una sorta di intermediario.

Insomma, non è da escludere che il Kazakistan si prepari a un futuro quale vicino di casa di una Russia meno influente che non possa più dettare la linea a Nur-Sultan a piacimento. Significativa, in questo senso, la visita di Xi a Nur-Sultan prima di recarsi in Uzbekistan al summit dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. In questo caso, il Kazakistan guarderebbe ai suoi vicini meridionali per espandere la propria influenza: già ora la conformazione della regione rende il Kazakistan un paese di peso differente rispetto agli altri inquilini dell’Asia centrale.

Se questi sono i sogni della leadership kazaka, ci sono però molti ostacoli da oltrepassare prima di vederli realizzati. In primis, la tenuta interna: le proteste che hanno messo in seria discussione la stabilità del paese sono scoppiate per il carovita e, più in particolare, per il caro energia, fenomeni che sono chiamati a riproporsi su una scala ancor maggiore prossimamente.

Inoltre, pare che le tensioni fra la nuova leadership di Kasym-Žomart Tokaev e le cerchie vicine all’ex presidente Nazarbayev non si siano completamente calmate. L’ultimo atto riguarda nuovamente il nome della capitale del paese, che l’attuale presidente vorrebbe rinominare Astana. Inoltre, se è vero che la Russia è assorbita dal teatro ucraino, non è cieca su ciò che accade nel suo estero vicino: un conto sono i “problemi interni” di alcuni paesi (come la Russia ha definito le tensioni in Karakalpastan), un altro se un suo importante vicino propone un cambio di rotta sulla scena internazionale (per maggiori informazioni, chiedere a Saakashvili, ex-presidente della Georgia, ai manifestanti di Euromajdan o allo stesso Zelensky).

In ultimo, la configurazione sovietica della regione rende difficili i sogni di gloria di ciascuno: il Karakalpakstan fu creato proprio con l’intento di creare attrito tra l’Uzbekistan e Kazakistan (i caracalpachi sono linguisticamente più vicini ai kazaki, e il Karakalpakstan aveva fatto parte del Kazakistan fino al 1936), i due maggiori paesi della zona che difficilmente andranno di colpo d’amore e d’accordo.

Scenari futuri

La guerra in Ucraina e il suo esito possono quindi incidere sugli scenari di questa regione, così come le scelte dei singoli attori. Se è vero che la maggior parte degli stati centroasiatici rimangono molto deboli e hanno pochi margini circa le proprie prospettive (il primo interesse della maggior parte di essi è la conservazione della dinastia o dell’individuo al vertice), il Kazakistan ha inviato segnali ambigui. 

La politica della Cina è di lungo periodo, e gli investimenti della “nuova via della Seta” richiedono un minimo di stabilità per essere approvati, e la stabilità, con i talebani in Afghanistan e la Russia presa dall’Ucraina, potrebbe non essere garantita. In seguito al XX° Congresso del partito probabilmente si aprirà nell’élite cinese una riflessione su come affrontare questa parte del mondo, un suo confine lungo e fragile, con gli uiguri dello Xinjiang che hanno più di qualcosa in comune con i centroasiatici, anche se il recente vertice uzbeko dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai ha sottolineato sia quanto la Cina tenga a questa regione, sia quanta influenza vi abbia perso la Russia.

Il ritiro Usa dall’Afghanistan ha portato più entropia nella regione, con la composizione di origine sovietica dei territori che lascia la porta aperta alle conflittualità infra- e intra-statali. Come sempre accaduto da un secolo a questa parte, questa situazione favorisce Mosca, che però potrebbe non avere più le risorse per assicurarsi che il proprio retroterra centroasiatico sia in mani sicure: il destino della regione rimane legato a doppio filo al risultato della guerra e a come la Russia ne uscirà fuori.

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