È possibile immaginare un ritorno della Turchia nello scenario globale come potenza regionale in versione neo-ottomana guidata da Recep Tayyip Erdoğan, l’uomo forte di Ankara al potere con il partito filo-islamico Akp da 18 anni di fila?

Sì, è possibile, al punto che la stessa Unione europea sembra aver finalmente aperto gli occhi su questa nuova minaccia dell’espansionismo turco alla stabilità di numerose aree di influenza europea. Così la Ue ha deciso il 10 dicembre a Bruxelles delle sanzioni mirate contro cittadini turchi per frenare le mire di Ankara nel Mediterraneo orientale, un piccolo segnale ma le reazioni turche non si sono fatte attendere.

Erdoğan, in un discorso trasmesso in collegamento video, non ha usato mezzi toni. «È estremamente sbagliato che le relazioni tra la Turchia e la Ue siano in ostaggio dei trucchi di uno o due stati», ha detto Erdoğan, riferendosi indirettamente a Grecia e ai greci-ciprioti. Dichiarazioni che giungono dopo che i leader europei riuniti a Bruxelles il 10 dicembre hanno concordato sanzioni limitate ai cittadini turchi a seguito delle esplorazioni per la ricerca di idrocarburi condotte nelle acque territoriali di Grecia e Cipro, rinviando qualsiasi inasprimento a marzo.

L’annuncio è stato condannato da Ankara, che ha definito «fazioso e illegale» l’approccio assunto dall’Unione e ha invitato Bruxelles ad agire come «un onesto mediatore» nella controversia in corso nel Mediterraneo. La Turchia ha inoltre accusato l’Europa di ignorare il comportamento della Grecia che respinge i migranti nell’Egeo, sottolineando anche «il coinvolgimento di Frontex in queste azioni».

Secondo la Turchia «non è possibile parlare di gestione responsabile dei flussi migratori senza porre fine a queste violazioni e pratiche di deportazione collettiva, che sono gravi violazioni dei diritti umani e sono fortemente condannate dall’opinione pubblica internazionale». Ankara riceve, con l’appoggio tedesco, fondi Ue per 6 miliardi di euro per tenere 3,5 milioni di profughi siriani nel suo territorio e tenere chiusa la “via dei Balcani”. Come finirà il braccio di ferro tra Ankara e Bruxelles?

Le basi del neo-ottomanesimo

Per capire come e quanto sia cambiata la Turchia basta fare una passo indietro di dieci anni quando l’Economist scriveva che la politica estera turca era forgiata in senso strettamente filo-atlantico al desk mediorientale del dipartimento di Stato a Washington. I binari erano stati messi saldamente in opera dal fondatore della Turchia moderna e secolarista, Kemal Ataturk, che con mezzi autoritari aveva proiettato il paese nel mondo moderno cacciando il sultano, adottando l’alfabeto latino al posto dell’arabo e abolendo il califfato musulmano. Così il paese della mezzaluna sul Bosforo si è orientato verso occidente.

Dalla Seconda guerra mondiale ciò ha significato entrare a far parte della Nato (nel 1952), appoggiare l’occidente contro l’Unione sovietica e aspirare ad aderire al progetto europeo (un scelta che oggi ha imboccato un binario morto). Come l’America, anche la Turchia era costantemente filo-israeliana.

Poi è arrivato Ahmet Davutoğlu, un accademico sconosciuto ai più che ebbi il piacere di ascoltare nel corso di un dibattito pubblico ad Ankara per la prima volta quando, diventato ministro degli Esteri e poi premier, mise in atto quello che aveva teorizzato nel suo libro sulla «profondità strategica turca», la costruzione ideologica che pochi hanno letto ma che ha messo le basi del neo-ottomanesimo, cioè della fortunata formula di avere «zero problemi con i vicini» (obiettivo fallito), e di tornare a essere una potenza regionale di prima grandezza (obiettivo raggiunto).

Di fatto, Davutoğlu, ha dato la scossa alla politica estera turca, grazie al fatto che prima ha ricoperto l’incarico di consigliere per la politica estera di Erdoğan (2003-2009) poi, di ministro degli Esteri (2009-2014) e di premier (2014-2016). Da quel momento la Turchia moderna è diventata sempre più neo-ottomana in politica estera, più autonoma da Washington e Bruxelles senza però mai rinnegare i legami atlantici.

Il nuovo dinamismo di Ankara si è visto in Siria, Iraq, Azerbaijan (Nagorno-Karabakh), Corno d’Africa e Tripolitania (ai danni soprattutto di Roma) e Balcani, attraverso un mix di interventi diretti militari, soft power come la vendita di soap opera televisive ambientate nel periodo dei sultani e proiezione economica.

Negli ultimi decenni, Ankara, con un piano strategico di lungo termine, ha cercato di rafforzare la propria influenza su regioni storicamente già state in passato nella sfera dei suoi interessi, proprio come il medio oriente, l’Africa settentrionale e orientale, i Balcani e il Caucaso.

Alcuni secoli fa, l’Impero ottomano riuscì a conquistare i Balcani e mantenne il potere sulla regione per cinque secoli fino a raggiungere, nel suo apogeo, Vienna, assediarla e dove venne fermato per due volte, anche grazie al provvidenziale intervento dei cosacchi ucraini guidati dal re polacco Jan Sobieski. La caduta degli imperi, tedesco, asburgico e ottomano, dopo la Prima guerra mondiale, ha cambiato le carte in tavola.

Ma oggi, seguendo la politica neo-ottomana delineata da Davutoğlu, la Turchia torna ad affacciarsi di nuovo su numerosi scenari del Mediterraneo orientale in competizione con Italia, Germania, Francia, Grecia, Cipro, Egitto, Cina e Russia.

La Somalia

Ma c’è di più. Dopo Siria, Libia e Azerbaigian, gli occhi del presidente turco sembrano puntati sulla Somalia, ex colonia italiana. Un media locale ha riferito che Erdoğan ha ordinato ai servizi di sicurezza di trasferire combattenti mercenari in Somalia.

Un rapporto pubblicato dal quotidiano turco Zaman, filo-governativo, citando fonti siriane ha spiegato che il trasferimento dei combattenti avverrà attraverso il coordinamento con i leader delle milizie somale fedeli all’amministrazione di Erdoğan a Mogadiscio, per ordine del presidente. Ha aggiunto che i funzionari di Erdoğan hanno tenuto una riunione nel villaggio di Medan Akbes ad Afrin, nel nord-ovest della Siria, il 12 novembre, con l’obiettivo di prepararsi a inviare alcuni combattenti in Somalia.

Secondo queste fonti, l’incontro si è occupato dell’allestimento di campi per addestrare i combattenti prima di inviarli in Somalia. Ankara ha aperto un valico di frontiera nel villaggio di Benirka nel distretto di Raju, nei pressi della base turca di Afrin, per consentire il passaggio dei miliziani in Turchia e poi in Somalia. 

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