«La lira supera la soglia di 15mila per un dollaro, la popolazione si mobilita - Il sindacato dei fornai mette in guardia contro una "chiusura forzata" se la moneta non venisse stabilizzata». Questo il drammatico titolo della versione online di L'Orient-Le jour, il più prestigioso quotidiano libanese in lingua francese, che non lascia molti dubbi sulla spirale in cui il paese dei cedri rischia di essere inghiottito. Problemi economici? Sì certo, ma sotto c'è la necessità di un recupero di sovranità nazionale e la fine delle ingerenze straniere o delle guerre per procura (Proxy war) secondo la famosa definizione di Zbigniew Brzezinski, consigliere per la sicurezza dell'ex presidente americano Jimmy Carter.  

La lira libanese, il termometro della crisi, ha toccato il 16 marzo il minimo storico al "mercato nero", dove ha sfiorato quota 15mila lire per dollaro, proseguendo la sua caduta libera sulla scia di un crollo economico aggravato dall'inerzia del governo. Dall'inizio della crisi nell'autunno del 2019, la moneta nazionale ha perso il 90 per cento del suo valore rispetto al biglietto verde, mentre il cambio ufficiale è ancora fissato a 1.507 sterline per dollaro. Per un dollaro ora servono 15mila lire mentre solo diciotto mesi fa ne bastavano 1.500.

La svalutazione monetaria senza precedenti nella sua dimensione nella storia del piccolo paese mediterraneo, dove l'Italia è presente con un suo contingente militare sotto l'egida dell'Onu al confine israeliano, ha scatenato una nuova ondata di proteste tra la popolazione. Il 16 marzo pomeriggio i manifestanti hanno nuovamente bloccato le strade delle principali città, dando fuoco a pneumatici e cassonetti.

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Questo crollo valutario, associato all'imposizione da parte delle banche libanesi di un rigido controllo dei capitali di piccoli e medi risparmiatori, ha acuito gli effetti di una crisi aggravata dagli effetti locali e globali della pandemia. I distributori di benzina hanno cominciato a razionare la vendita di combustibile per timore di rimanere senza scorte a causa dell'assenza di fondi in dollari per acquistare il carburante. Da settimane la Società elettrica libanese (Edl) raziona ulteriormente la fornitura di energia elettrica per uso domestico a causa dell'assenza di combustibile per alimentare le centrali. «Siamo stanchi, siamo affamati», ha gridato un manifestante.

La crisi economica del Libano rappresenta la più grande minaccia per la sua stabilità dalla guerra civile del 1975-1990, spazzando via i posti di lavoro, impedendo alle persone di attingere ai loro depositi bancari e aumentando il rischio di una carestia diffusa. Di fronte a questa estrema volatilità, le imprese hanno temporaneamente chiuso i battenti nei giorni scorsi, in attesa della stabilizzazione. La banca centrale del Libano, un tempo la roccaforte del paese dei cedri, sembra impotente. «Chiuso per il dollaro troppo caro» si legge sulla facciata di un negozio di alimentari a Beirut. L'inflazione annuale ha già superato il 140 per cento alla fine del 2020, secondo le statistiche ufficiali.

«Il paese sta crollando intorno a noi e non possiamo fare nulla», si lamenta su Twitter Maha Yahya, direttore del Carnegie Center di Beirut, lamentando i politici che «tengono in ostaggio il paese». Nonostante l'urgenza, i politici, accusati di incompetenza e corruzione, rimangono imperturbabili dopo essere sopravvissuti a un movimento di protesta senza precedenti alla fine del 2019. Oltre al collasso monetario, il paese sta vivendo un’esplosione di disoccupazione e impoverimento su larga scala. Più della metà della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà, secondo le Nazioni Unite, mentre le banche di quello che un tempo veniva chiamata la Svizzera del Medio oriente continuano a imporre restrizioni draconiane ai risparmiatori per evitare la fuga dei capitali.

Una fonte ufficiale ha detto alla Reuters che le riserve di valuta estera del Libano ora ammontano a circa 16 miliardi di dollari rispetto ai 19,5 miliardi di dollari di agosto e significa che non resta molto per un programma di sussidi per finanziare l'acquisto di beni di prima necessità, inclusi grano e carburante. I problemi del Libano si sono aggravati dopo che un'esplosione al porto in agosto ha devastato interi tratti di Beirut, uccidendo duecento persone e inducendo il governo a dimettersi, lasciando il paese senza timone mentre affonda sempre più nel collasso finanziario.

Ingerenze straniere

Il gabinetto del primo ministro Hassan Diab è rimasto in carica fino alla formazione di un nuovo governo. Nessuna legge finanziaria è stata ancora approvata dal parlamento per il 2021. Il primo ministro designato Saad al-Hariri, leader sunnita, nominato in ottobre, è ai ferri corti con il presidente cristiano Michel Aoun e non è stato in grado di formare un nuovo governo per attuare riforme per sbloccare gli aiuti internazionali. E intanto il paese scivola nel baratro nel segno del Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa.

Dopo quindici anni da quel 14 marzo 2005, scrive Michel Touma sull'Orient-Le jour, che diede inizio alla svolta sovranista libanese chiedendo la fine dell’influenza siriana sul Libano, ora è la volta della fine della tutela iraniana. Il tentativo di stabilizzare il paese dei cedri si è sempre scontrato negli ultimi cinquant’anni con le ingerenze straniere che hanno approfittato di una lunga serie di attentati politici a leader che stavano diventando troppo forti e capaci di ristabilire l'autorità dello stato. «Oggi – scrive Touma – l'operazione "Stop Stabilization" viene portata avanti da Hezbollah, questa volta per conto dell'Iran. Ed è a questo livello che sta il grande ambito dell'iniziativa salvifica del patriarca maronita Béchara Raï volta a ottenere uno status di neutralità per il Libano. Perché forse è giunto il momento che i libanesi possano aspirare a non subire più gli effetti della funzione di ricaduta delle tensioni regionali, imposte al loro paese per più di mezzo secolo».

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