I giovani libanesi a un anno dalla pace: «Tutti si aspettano una nuova guerra»

Parlare al telefono con Fadi è complicato. La connessione va e viene mentre dal nord del Libano si dirige verso la capitale Beirut. «È così da tempo oramai», dice mentre con una mezza risata prova a nascondere la rassegnazione. Dal 2019 il paese attraversa un girone infernale da cui fa fatica a uscire. Prima la crisi finanziaria, poi la pandemia da Covid-19 e poi ancora l’esplosione del porto di Beirut che ha distrutto mezza capitale, cuore economico del paese. E come se non bastasse la guerra tra Hezbollah e Israele. Nonostante questo, Fadi Bejani è rimasto in Libano. Oggi è country manager del programma Work in progress (Wip), un progetto di sostegno all’imprenditoria gestito dalla Ong Pro Terra Sancta. «Dopo l’inizio della crisi nel 2019, abbiamo scoperto che migliaia di giovani hanno lasciato il paese in meno di due anni», spiega Fadi tra un vuoto di connessione e l’altro. «Se ne vanno perché non c'è futuro, a causa di tutta questa instabilità, economica ma anche politica». Il lavoro di Fadi non è soltanto quello di fornire un supporto finanziario ai giovani che vogliono fare imprenditoria nel paese. L’ultimo saluto di Hezbollah al suo leader Nasrallah «Proviamo a dare una speranza perché sono distrutti psicologicamente, lavoriamo molto sotto questo aspetto». Difficile in un contesto dove da quando è stato firmato l’accordo di pace tra Hezbollah e Israele, esattamente un anno fa, l’Unifil (la missione di peacekeeping dell’Onu) ha contato circa 9.400 violazioni dello spazio aereo libanese e i bombardamenti aerei sono all’ordine del giorno. L’esercito israeliano, inoltre, controlla ancora cinque avamposti strategici lungo il confine e secondo diversi articoli usciti sulla stampa internazionale starebbe anche costruendo un muro lungo la linea blu. In poche parole, il Libano è in uno Stato in cui non c’è guerra e non c’è pace. A fine 2026 la missione Onu concluderà il suo mandato e le truppe internazionali saranno costrette a lasciare l’area di confine. Questo significa avere meno occhi indipendenti che possano denunciare violazioni e violenze. Lo sa bene Ara Abadjian che vive ad Anjar, un piccolo villaggio di discendenti armeni situato nella valle della Bekaa, una delle aree più prese di mira dall’Idf. Ara ha 34 anni. «La nostra zona è abitata quasi esclusivamente da armeni rifugiati dal genocidio di un secolo fa. Anche la mia famiglia è armena, ma siamo tutti nati in Libano», racconta. È un agricoltore per passione ma ha conseguito un master in business. Nel 2017 ha creato un orto professionale ed era arrivato a rifornire 15 ristoranti locali. Poi è arrivata la crisi economica da cui ne è uscito con perseveranza. Ma la guerra ha dato la mazzata finale. «Se hai un’attività imprenditoriale in Libano è come se fosse che ci sono dei pulsanti di reset a cui ti trovi davanti. E ogni volta devi ricominciare sempre da capo», racconta Ara. «Ero arrivato a servire 40 ristoranti, poi è arrivata la guerra e ne sono rimasti tre. Se avessi iniziato nel 2018, in un paese stabile avrei raggiunto 100 ristoranti, ma questo non è il caso del Libano». L’ultimo saluto di Hezbollah al suo leader Nasrallah Da due anni Ara ha deciso di dedicare la sua vita a un altro progetto, sostenuto dal programma Wip. E così ha fondato Ayki, un’App basata sull’intelligenza artificiale che fornisce consigli a piccoli agricoltori. «Conosci il gioco di Farmville? Lo applichiamo alla vita reale», dice ridendo. L’Ia fornisce istruzioni su cosa piantare, come e in che area del terreno a disposizione. Lo fa dopo una lunga analisi di dati che tengono in considerazione anche le zone d’ombra di eventuali alberi presenti. L’obiettivo dell’applicazione è quello di aumentare la produttività senza compromettere la sostenibilità ambientale. Sono due anni che lavora a questo progetto, per il quale si serve del lavoro di tre sviluppatori che lavorano in Egitto: «Amo il loro accento», specifica. «Voglio vivere in questo paese, amo il Libano. Non voglio dipendere dall'economia di questo paese. Ecco perché ho creato un'applicazione mobile e non ho ingrandito la fattoria fisica. Se dovessi dipendere dall'economia libanese per realizzare i miei sogni, non so se ce la farei», dice Ara. Con l’App, infatti, proverà a lanciare il suo business nel mercato globale. Bellezza è resistenza Per Joelle Abboud, è ancora più difficile fare business. «Come donna è più complicato: quando ho iniziato avevo 25-26 anni, e spesso le persone parlavano del mio brand come se fosse un “progettino”, un hobby da ragazza. Ancora oggi qualcuno lo fa. Ma per me non è un hobby: è il mio lavoro a tempo pieno, la mia principale fonte di reddito e anche della mia famiglia», racconta. Dopo l’esplosione del porto di Beirut ha fondato una sua azienda di skincare di prodotti naturali, vegani e di alta qualità. La sua attività è decollata subito perché in grado di soddisfare un’alta domanda con prezzi competitivi dato che i prodotti sono locali. Anche se solo ora sta recuperando dagli effetti della guerra . «Ho avuto molta paura», dice Joelle ricordando i primi giorni di conflitto. «Pensavo: comprare prodotti per la pelle non è una priorità. Devi pensare prima ai beni essenziali», dice. Eppure, la reazione delle donne libanesi l’ha spiazzata: «Ho ricevuto ordini indirizzati ai rifugi. La gente si è abituata all’idea della guerra e ha proseguito la loro vita». Futuro in bilico «Finora abbiamo avuto quasi 80 imprenditori iscritti al programma e che hanno fatto le sessioni di coaching. Ma quelli che abbiamo sostenuto finanziariamente sono 30», spiega Fadi. «Durante i due mesi e mezzo di guerra, la maggior parte ha interrotto le proprie attività. Tutti i settori sono stati colpiti. Ma appena è finita, sono riprese». Questo discorso non vale, però, per tutte le aree del paese. Alcuni imprenditori si trovano in aree remote: ad esempio ora continuano a bombardare la zona di Baalbek, nel nord-est del Libano e quindi è tutto fermo. Molto dipenderà da cosa accadrà dopo la visita di Leone XIV che sarà in Libano dal 30 novembre al 2 dicembre. Un viaggio dalla forte valenza simbolica. Si tratta della prima grande visita organizzata dal Vaticano che arriva in un momento delicato non solo per il Libano ma anche per la vicina Gaza. Il viaggio è l’occasione per ribadire l’impegno della Chiesa per la pace e per la tutela della comunità cristiana nella regione. «Questo ottobre è stato come luglio e agosto del 2024, un'escalation enorme. Se il cessate il fuoco durerà? Non lo so. Ora come ora, solo una parte lo sta rispettando», dice Fadi. «Chiedi in giro: tutti si aspettano la guerra. Tutti dicono che succederà qualcosa di grosso. Non prima della visita del papa, ma dopo, se non cambia niente, probabilmente ci sarà una nuova guerra».