Chiusi i tradizionali, riservatissimi incontri estivi tra i leader cinesi a Beidaihe (sul mare di Bohai), Xi Jinping e Li Keqiang sono riapparsi in pubblico, dopo due settimane, il 16 agosto scorso. Il presidente a Liaoshen, per incontrare i veterani della campagna che segnò la riscossa dei comunisti nella guerra civile (1946-1949); il premier a Shenzhen, dove ha deposto una corona di fiori davanti alla statua di Deng Xiaoping, il “piccolo timoniere” che aprì al mercato la Cina socialista.

Xi ha avvertito che «non permetteremo mai che il paese cambi il suo colore». Li invece ha assicurato che «il Fiume azzurro e il Fiume giallo non scorreranno all’indietro». Un video in cui aggiungeva che «dobbiamo insistere con la “riforma e apertura”, che è la politica di base del nostro paese» è stato subito rimosso dal web. L’economia sarà al centro del XX congresso del Partito comunista che si aprirà il 16 ottobre a Pechino.

Nella Grande sala del popolo 2.296 delegati si riuniranno per dare a Xi un inedito terzo mandato a guidare il partito mentre il paese attraversa una fase senza precedenti in epoca post maoista. Dopo lo shock del secondo trimestre (+0,4 per cento), il Fondo monetario internazionale ha rivisto al ribasso (+3,3 per cento) il Pil cinese nel 2022: mai così male da quarant’anni, ben al di sotto del +5,5 per cento stimato a marzo dal governo.

Crisi senza precedenti

Il settore immobiliare è in crisi, quello dei servizi è stato duramente colpito dalle restrizioni anti Covid, gli investimenti privati nei primi otto mesi dell’anno sono stati il 55,3 per cento di quelli complessivi (il livello più basso dal marzo 2011), i consumi ristagnano. Le città, dove è disoccupato il 20 per cento dei giovani, si sono riempite di dàbái (“grandi bianchi”): dipendenti pubblici, infermieri e volontari mobilitati dal partito per somministrare i tamponi nei chioschi spuntati a ogni angolo di strada e prestare assistenza nei condomini isolati per la sospetta presenza di infetti.

Accolti come eroi nazionali nella prima fase della pandemia, i dàbái e le loro tute monouso dopo quasi tre anni stanno diventando una presenza opprimente, mentre la colossale logistica per sostenere la politica “contagi- zero” voluta da Xi mette sotto stress le province più povere e indebitate. E se Ren Zhengfei ha annunciato una cura dimagrante per la sua Huawei dichiarando che «dobbiamo pensare anzitutto a sopravvivere», è tutto il mondo del business privato (anche quello straniero, che protesta con le sue camere di commercio) ad attendersi dal congresso anzitutto un cambiamento nella lotta al Covid.

Nei primi dieci anni di Xi, nel Pcc hanno convissuto due linee: quella riformista (in continuità con il denghismo) e quella che spinge per un maggiore intervento del partito-stato nell’economia. A prevalere è stata quest’ultima, con l’introduzione di funzionari del Pcc nei consigli d’amministrazione di tutte le aziende (pubbliche e private), la campagna che l’anno scorso ha ridimensionato in ogni ambito (economico, finanziario e ideologico) i colossi privati di internet come Alibaba e Tencent, e la priorità accordata allo sviluppo delle aziende di stato (Soe), che secondo Xi «devono essere rafforzate, migliorate e ingrandite, perché costituiscono la base economica e politica del sistema socialista cinese e sono un pilastro fondamentale per il governo del partito».

Secondo i dati dell’Ufficio nazionale di statistica, nel 2021 le Soe hanno registrato profitti pari a 2.277 miliardi di yuan (327 miliardi di euro), in crescita del 56 per cento rispetto all’anno precedente. Nella “Nuova era” proclamata da Xi, il premier è rimasto ufficialmente il responsabile della politica economica. Ma uno dei suoi quattro vice, Liu He, è stato messo alla guida di una serie di organismi governativi ad hoc, diventando lo “zar dell’economia cinese”. Classe 1952, master ad Harvard, a lui Xi ha delegato anche le trattative con gli Stati Uniti e l’Unione europea. Con il prossimo congresso Liu dovrebbe uscire di scena, avendo superato il limite di 68 anni per la permanenza nella leadership.

La probabile promozione dell’attuale vice premier Hu Chunhua (non considerato un uomo di Xi) alla guida del governo renderebbe essenziale per Xi trovare un altro “zar” che porti avanti quella «evoluzione del capitalismo di stato» che l’Economist ha battezzato “Xinomics”. In pole position c’è il sessantasettenne presidente della Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma, He Lifeng.

He ha accompagnato Xi in molte delle ispezioni presidenziali nelle province della Cina, e dirige il pechinese Centro di ricerca sul pensiero economico di Xi Jinping, inaugurato all’inizio dell’anno per «studiare, diffondere, applicare e presentare il pensiero economico di Xi Jinping». Recentemente ha scritto un articolo sul Guangming Ribao per promuovere l’autosufficienza tecnologica e lo sviluppo guidato dall’innovazione, cavalli di battaglia di Xi.

La “Xinomics”

(Kyodo via AP Images)

Chiunque sarà il funzionario scelto Xi, dovrà sovrintendere all’implementazione di nuove politiche che puntano anzitutto a correggere gli squilibri interni del paese. La “doppia circolazione interna e internazionale” mira ad adattare l’economia nazionale al nuovo scenario internazionale nel quale per i paesi avanzati la Cina non è più solo un partner, ma è diventata soprattutto un concorrente, quando non una minaccia.

Per questo la crescita e lo sviluppo non dovranno più dipendere dall’estero, ma, sempre più, dall’interno. La strategia del “benessere comune” secondo Xi risponde all’esigenza fondamentale di «rafforzare le basi per il governo a lungo termine del partito»: in quarant’anni di aperture di mercato la Cina ha accumulato ricchezza in maniera assai diseguale tra classi sociali, città e aree rurali, tra le floride province costiere e quelle ancora sottosviluppate dell’interno. Ora è diventato urgente redistribuirla.

Gli aumenti a doppia cifra del prodotto interno lordo sono ormai un lontano ricordo e il patto sociale che lega il popolo al partito comunista si regge assai meno che in passato sull’aspettativa di quell’arricchimento individuale che Deng definiva “glorioso”. Ad agosto – nel centodiciottesimo anniversario dalla nascita – Deng è stato celebrato sui social dagli economisti liberal e da quei cittadini che grazie alle sue riforme sono riusciti ad accumulare denaro e proprietà.

Ma, come ha ricordato qualche tempo fa Li, in Cina circa 600 milioni di persone vivono «con un reddito mensile di appena mille yuan» (circa 145 euro) che, ha aggiunto il premier, «non bastano nemmeno per affittare una stanza in una città cinese di medie dimensioni».

Austerità e ridistribuzione

Complice la crisi globale, sulla stagione di “riforma e apertura” cala il sipario, mentre da sinistra si levano voci, come quella di Wen Tiejun, che invocano il ritorno di un’economia «orientata verso il popolo».

L’accademico dell’università Renmin è convinto che lo scontro con gli Usa offra alla Cina l’opportunità di recidere i legami con la globalizzazione capitalista, e che la strada da seguire sia quella della partecipazione popolare, nella rivitalizzazione delle aree rurali così come nella lotta al Covid.

Ma la forte spinta all’accentramento amministrativo e il sostegno alle aziende di stato, oltre che di una evidente differenza ideologica tra Xi e Deng, sono il frutto soprattutto della guerra commerciale-tecnologica dichiarata alla Cina dagli Stati Uniti, della pandemia e delle tensioni geopolitiche che stanno ristrutturando pesantemente la “fabbrica del mondo”.

La nuova svolta della Cina può insomma essere interpretata anche come l’ennesimo (tutt’altro che ideologico) adattamento di un paese con una popolazione immensa e in buona parte ancora povera a un mondo esterno che si è fatto più incerto e, in parte ostile.

La classe media, che ha rappresentato la costituency senza diritto di voto di Xi, da tre anni ha smesso di viaggiare all’estero per le restrizioni anti Covid, si è abituata a mettersi in fila ogni 72 ore per il tampone obbligatorio, ha ridotto i consumi nonché le aspettative per i suoi rampolli a causa di quella che i cinesi temono rappresenti una nuova normalità di austerity e ridistribuzione.

Dopo aver centrato il primo dei due “obiettivi dei centenari” – la cancellazione della povertà assoluta a un secolo dalla fondazione del partito comunista – per diventare un “paese socialista moderno” entro il 2049 (quando ricorreranno cento anni fondazione della Repubblica) la Cina si appresta e seguire una strada nuova.  

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