Ormai è solo questione di tempo, più che di ipotesi: quando Donald Trump verrà incriminato per uno dei tanti procedimenti legali pendenti si infrangerà un precedente storico lunghissimo.

Mai prima un presidente americano era stato incriminato anche se due inquilini della Casa Bianca rischiarono pesantemente: nel 1868 controverso successore di Abraham Lincoln, Andrew Johnson, si salvò per un solo voto di scarto dall’incriminazione per aver illegalmente silurato un membro della sua amministrazione. Mentre Richard Nixon dopo le dimissioni in seguito allo scandalo del Watergate nel 1974 fu graziato dal suo successore Gerald Ford.

A ogni modo, anche qualora Trump venisse scagionato da un dibattimento processuale o riuscisse a uscirne senza una sentenza di colpevolezza (ipotesi comunque da non scartare, qualora alcuni membri della giuria si mettessero di traverso), ci sarebbe comunque l’ipotesi di un presidente in manette.

I precedenti

Ci sono, però, dei precedenti che riguardano figure molto diverse tra di loro ma assimilabili alla presidenza. Nel primo caso, parliamo del presidente della Confederazione sudista Jefferson Davis, imprigionato per alto tradimento.

L’altro esponente politico che era un candidato alle presidenziali del 1920, il socialista Eugene Debs, invece si ritrovò a dover condurre una campagna elettorale dal carcere, dove era detenuto con l’accusa di sedizione. La distanza politica tra i due era enorme, così come la loro situazione.

A condurre all’arresto dei due esponenti politici furono però anche le circostanze: in entrambi i casi venne favorito dalla mentalità di guerra dell’opinione pubblica.

Il caso Davis

Nel caso di Jefferson Davis, l’imputazione era di alto tradimento. Non si trattava di un neofita della politica: prima di aderire alla secessione degli stati schiavisti, Davis, originario del Mississippi, era uno dei più autorevoli membri del Senato, già segretario alla guerra nell’amministrazione del democratico Fraklin Pierce. Quando si dimise dichiarò che quello «era il giorno più triste della sua vita».

Dopo quattro anni di guerra, nel marzo 1865 chiese al suo esercito di ricorrere a tattiche di guerriglia, opzione rifiutata dal comandante militare confederato Robert Lee, che preferì arrendersi. Dopo che a marzo la guerra era finita, Davis fuggì e si rese irreperibile, tentando di creare un altro esercito con cui combattere. Dopo la morte di Lincoln il 14 aprile, fu messa una taglia di 100mila dollari sulla sua testa, perché sospettato di aver orchestrato l’omicidio del suo rivale. Il 5 maggio venne catturato da una pattuglia di militari mentre era travestito con uno strano cappotto cerato.

Le condizioni della prigionia di Davis furono durissime: nella sua cella di Fort Monroe, in Virginia, era sorvegliato giorno e notte e con un paio di catene alle caviglie. A quel punto l’opinione nei suoi confronti cambiò: quelle condizioni di detenzione vennero ritenute eccessive e furono gradualmente migliorate, fino a concedergli un vero e proprio appartamento dove poteva ricevere la moglie Varina e leggere libri e giornali.

La stessa amministrazione di Andrew Johnson non sapeva per cosa processarlo: se per crimini di guerra e quindi davanti a un tribunale militare oppure con un processo civile per alto tradimento. Davis a sorpresa sembrò gradire questa opzione: secondo la sua linea difensiva, durante il conflitto non era più un cittadino degli Stati Uniti; pertanto, le accuse contro di lui non erano valide. E quindi anche la secessione sarebbe stata perfettamente legale. Un’ipotesi che avrebbe messo in serio imbarazzo la Casa Bianca.

Anche per questo, dopo anni di indecisione riguardante l’incriminazione di Davis, Andrew Johnson decise di graziarlo nel giorno di Natale del 1868. Ritrovando la libertà, l’ex presidente confederato divenne un’icona del nascente movimento della Lost Cause del sud, venendo identificato come un martire politico ingiustamente perseguitato dall’arroganza Yankee.

Debs e la guerra

Anni dopo, anche Eugene V. Debs venne arrestato a causa di una guerra. Debs, a differenza di Davis, non era un politico professionista, era un sindacalista ferroviario e uno dei più autorevoli esponenti del nascente movimento socialista. Nel 1912 aveva raccolto il 6 per cento alle presidenziali e avrebbe voluto candidarsi nuovamente nel 1920, anche se rimaneva diffidente contro le elezioni “borghesi”, preferendo dedicarsi a organizzare i lavoratori. Durante uno di questi comizi sindacali, tenuto il 16 giugno 1918 a Canton, in Ohio, Debs incitò il pubblico a boicottare attivamente lo sforzo bellico americano nella prima guerra mondiale, definita come «la guerra dei capitalisti».

Il presidente Woodrow Wilson lo additò come «un traditore» e anche per questo venne arrestato con dieci accuse di sedizione. La sentenza arrivò rapidamente qualche mese dopo: dieci anni di detenzione. Debs non si pentì, anzi, ritenne la sua posizione giusta, e preferì non chiedere mai la grazia, che non arrivò nemmeno quando la guerra finì, l’11 novembre 1918. Ciò non gli impedì però di candidarsi dal carcere alle presidenziali del 1920, dove continuò a scrivere articoli contro il sistema carcerario e l’Espionage Act del 1917, che contribuì a condannare molti militanti contrari alla guerra. Raccolse il 3,4 per cento dei consensi, pari a poco meno di un milione di voti. Un risultato sorprendente per chi era privato della libertà personale.

Sorprendentemente, la grazia arrivò quando alla presidenza tornò un repubblicano, Warren Harding, che gliela concesse il giorno di Natale del 1921, ricevendolo alla Casa Bianca qualche giorno dopo la sua uscita dalla prigione, dove venne salutato da una folla festante. Debs morì qualche anno dopo con lo status di santo laico della sinistra americana.

Cosa accadrebbe con Trump?

E cosa accadrebbe con Trump? Difficile dire se la sua detenzione porterebbe a un miglioramento delle sue fortune elettorali nel 2024. Di sicuro, come già accaduto per Davis e per Debs, lo renderebbe un icona della destra nazional-conservatrice, perseguitato da una giustizia politicizzata che non è riuscita a sconfiggerlo nelle urne. Poco importa che le accuse nei suoi confronti non siano certo assimilabili a quelle che colpirono due “quasi presidenti” in passato: l’effetto nei suoi confronti sarebbe simile. A quel punto ci si dovrebbe domandare quale strada intenderà prendere il partito repubblicano, quesito di cui non conosciamo la risposta.

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