In una canzone di Bruce Springsteen, Devils and Dust, un soldato americano, armato fino ai denti, sta sull’orlo del deserto, e dice: «Ho il dito sul grilletto / non so di chi fidarmi / ho Dio dalla mia parte / sto solo cercando di sopravvivere / la paura è una cosa potente / prende la tua anima piena di Dio / la riempie di diavoli e polvere».

Questa immagine è la più precisa metafora di un’America che da più di trent’anni è collocata all’incrocio tra onnipotenza e paura, con “Dio dalla sua parte”, ma con un mondo ostile, sconosciuto, tutto intorno. A noi italiani questa scena non può non far ricordare l’America che fra onnipotenza e terrore ha ucciso Nicola Calipari. Ma l’intreccio fra onnipotenza e terrore è lo stesso che, da anni, alimenta lo stillicidio quotidiano di omicidi da parte della polizia.

C’è un’America che è terrorizzata e si arma per difendersi, senza pensare che il semplice fatto che siano tutti armati non fa che aumentare la paura. Una pubblicità della Nra, la National Rifle Association, consiglia di comprare un’arma per regalarla a «un amico che abita in un quartiere a rischio». Anche gli omicidi quotidiani da parte della polizia vengono da qui: dall’idea che chiunque incontri è armato.

I neri sono tutti pericolosi

Per esempio: il 9 febbraio del 2017 a Portland, Oregon, la polizia uccide un ragazzo afroamericano di 17 anni, Quanice Hayes. Si trovava a pochi isolati di distanza da un posto dove c’era stata una rapina: essendo nero, essendo giovane, era sospetto. L’agente di polizia che l’ha ucciso con un fucile d’assalto prima l’ha fatto inginocchiare, e poi gli ha sparato tre volte. Ha ammesso che non aveva visto nessuna arma, ma era sicuro che Hayes ne avesse una addosso. L’agente ha avuto paura e, onnipotente per la certezza dell’impunità, ha ucciso.

Allo stesso modo, era «visibilmente nervoso» e terrorizzato anche il poliziotto del Minnesota che nel 2016 ha ammazzato Philando Castile: gli avevano insegnato che i neri sono tutti pericolosi, criminali e drogati. E che sono tutti armati.

Per cui quando Castile allunga la mano per prendere il documento d’identità per il poliziotto è già scontato che invece voglia prendere un’arma. Quindi spara.

È la stessa cosa che è successa col ferimento di Jacob Blake a Kenosha lo scorso agosto. Avevano paura, ma siccome hanno un’arma possono uccidere ciò di cui hanno paura, e lo fanno.

(AP)

La classe media spaventata

Su questo intreccio tra onnipotenza e paura fa politica Donald Trump. La paura fisica delle armi e delle rivolte di piazza si intreccia a una più profonda paura sociale.

Già dal 1989, in un libro intitolato Paura di cadere la sociologa Barbara Ehrenreich aveva individuato la profonda insicurezza di una classe media (definizione che negli Stati Uniti comprende anche gran parte della classe lavoratrice) che sente venire meno le certezze, i privilegi stessi, su cui fonda la propria identità. È a questo ceto in declino, anche razzialmente connotato, che fa appello Donald Trump quando annuncia, per esempio, che non permetterà che sorgano quartieri popolari nelle vicinanze dei sobborghi dove la “classe media” vive quello che lui chiama «il sogno dello stile di vita americano».

Ma esiste un solo stile di vita americano? In un reportage recente, Federico Rampini su Repubblica, diceva che «Trump fa leva sulle paure dell’America». Ma di che America parliamo, di che paure parliamo?

(KATU Photo via AP)

America nostra

Al tempo della rivolta di Los Angeles nel 1992, il presidente George H. W. Bush proclamava: «Come presidente della vostra nazione, vi annuncio che questa violenza deve cessare».

Dimenticava di essere il presidente anche degli emarginati e dei disperati che si ribellavano nelle strade di South Central Los Angeles. L’America di cui parlano dunque è un’America in cui i neri non esistono, non ne fanno parte.

Quando il terrorista bianco Dylan Roof è entrato in una chiesa afroamericana di Charleston, South Carolina, prima di aprire il fuoco e ammazzare nove persone, ha detto: «Voi vi state impadronendo dell’America». L’America, cioè, non è anche loro.

(AP)

Educazione patriottica

La politica della paura si intreccia con una politica della memoria. Quando Trump annuncia il progetto di “Make America great again”, rendere di nuovo grande l’America, ha gli occhi rivolti non al futuro ma a un passato in gran parte immaginario, soprattutto l’America apparentemente pacificata e prospera degli anni Cinquanta, prima del Vietnam, del Black Power, della rivolta di Berkeley.

Ma quell’America grande e mitica, per gli afroamericani era l’America della segregazione, dell’assassinio di Emmett Till e di Medgar Evers, delle quattro bambine uccise da una bomba in chiesa a Birmingham, e tanti altri. Era un’America in cui le donne stavano a casa, i dissidenti venivano cacciati dall’ondata maccartista, i latini erano migranti stagionali senza diritti sindacali. E gli indiani stavano nelle riserve.

Nel 2019 ricorreva l’anniversario dei 200 anni dallo sbarco del primo carico di schiavi arrivati in Virginia dall’Africa. In una straordinaria inchiesta giornalistica intitolata “1619 Project”, il New York Times ricostruisce la storia degli Stati Uniti con il progetto di «ricostruire e reinquadrare la storia americana domandandosi cosa accadrebbe se, invece del 1776, fosse il 1619 a essere considerato l'anno di nascita degli Stati Uniti», che poi è diventato anche un progetto didattico adottato da molte scuole in tutto il paese. Secondo Trump, questa visione della storia è «violenza sui minori»; ha annunciato che toglierà i finanziamenti federali alle scuole che usano il “1619 Project” e ha ventilato l’ipotesi di istituire una commissione incaricata di dettare alle scuole le linee di una «educazione patriottica».

Ed è abbastanza interessante che in America – ma anche da noi – divampi la polemica sul politically correct di sinistra, nessuno si preoccupi quando un governo di estrema destra pretende di dettare dall’alto il contenuto ideologico dell'insegnamento.

(AP)

Memoria alternativa

La risposta a questa manipolazione ideologica della storia sta in primo luogo nell’irruzione sulla scena politica proprio di quei soggetti esclusi o emarginati dalla mitica America great di Trump, che sono portatori di una memoria alternativa e plurale alla narrazione egemonica.

Lo scontro su statue, monumenti, toponomastica è parte di questo conflitto con cui alla storia dominante risponde la memoria antagonista di neri, latinos, nativi, marginali, donne (non è un caso se tutte le statue contestate sono statue di maschi).

E in secondo luogo la risposta sta nella memoria personale, nell’esperienza dei singoli.

Anche qui ci aiuta Bruce Springsteen. Lui racconta che durante la sua prima tournée europea, nel 1981, lesse per caso un libro di storia, la Storia degli Stati Uniti di Allan Nevins e Henry Commager. Scritto durante la Seconda guerra mondiale, era una riproposizione dell’eccezionalismo democratico americano contrapposto – in questo giustificabile – al fascismo e al nazismo.

Ma quando Springsteen lo lesse nel 1981, si accorse che c’era un abisso fra quella narrazione storica e l’esperienza sua e della sua famiglia: «Se è così che dovevano stare le cose», disse, «mi domandavo: e perché mio padre (operaio) ha fatto la vita dolorosa che ha fatto?». Da quel momento in poi, ha detto, «il mio compito sarà quello di misurare la distanza fra il sogno americano e la realtà americana».

(AP)

Paura di morire

Per chiudere tornando al rapporto fra paura e memoria. Un classico saggio sociolinguistico di William Labov stimola i narratori a raccontare ponendo questa domanda: «Vi ricordate di una volta che avete avuto paura di morire?». Più o meno, è successo a tutti.

Ma raccontare la paura di morie significa anche essere sopravvissuti, e avere memoria di come ci siamo riusciti. Ci sono due spiritual afroamericani che hanno apparentemente lo stesso titolo: How I got over e We shall overcome. Got over e overcome sono sinonimici: significano superare gli ostacoli, i pericoli, le minacce, significano farcela. Ma i tempi verbali sono diversi: How I Got Over parla del passato, di come abbiamo fatto ad arrivare vivi fino a qui; We Shall Overcome parla del futuro. E solo chi ha la memoria di How I Got Over può avere la forza di dire We shall overcome.

© Riproduzione riservata

© Riproduzione riservata