«Questa settimana il Partito repubblicano alla Camera ha l’enorme opportunità di passare dalla guerrafondaia Liz Cheney alla talentuosa comunicatrice Elise Stefanik», ha scritto Donald Trump sul suo (ampiamente motteggiato) blog, in riferimento al voto di mercoledì che dovrebbe rimpiazzare la numero tre del partito, Cheney, accusata di eccessiva animosità verso Trump e la sua “big lie”, con la giovane Stefanik. Ma il profilo della leader in ascesa non è quello di una monodimensionale lealista di Trump. 

Nel giro di pochi anni sono cambiate moltissime cose per la deputata. Eletta per la prima volta nel 2014 ad appena trent’anni nel ventunesimo distretto di New York, durante le elezioni di midterm del secondo mandato di Barack Obama, rappresentava una nuova generazione di politici repubblicani, come quelli descritti dalla giornalista Margaret Hoover nel suo libro del 2011 American Individualism.

Una nuova progenie di politici giovani, conservatori in materia fiscale e riguardo all’immigrazione clandestina, ma attenti all’ambiente e al cambiamento climatico e sostenitori dei diritti civili per le persone Lgbt.

In questo modo si sarebbe svecchiata l’immagine di un partito troppo legato all’immagine stereotipata dell’anziano maschio bianco ricco, poco istruito e pieno di pregiudizi. E, contrariamente a quanto si è poi realizzato, anche lo stesso Donald Trump sembrava meno ideologico dei suoi predecessori che il Partito repubblicano aveva candidato, secondo la percezione registrata da un sondaggio Gallup di metà settembre del 2016.

Chi è davvero?

Ma chi è davvero la giovane deputata Stefanik, nata nel 1984 ad Albany, capitale dello stato di New York, figlia di un produttore di compensato di origini ceche e con una mamma di ascendenze italiane, con in tasca una laurea ad Harvard, università scelta anche da altre persone che hanno gravitato intorno al presidente Trump come Steve Bannon (master in business) e i senatori Tom Cotton e Ted Cruz (entrambi hanno frequentato la scuola di legge)?

I primi anni di presidenza di Trump, quando secondo il sito ontheissues.com il neopresidente si è gradualmente spostato dal settore degli “ideological moderates” a quello degli “hard core conservatives”, Stefanik sembrava essere il volto coscienzioso di un partito che si stava spostando troppo a destra.

Nel 2017 fa mancare il suo sostegno a due fondamentali provvedimenti dei primi anni di presidenza Trump, il Tax Cuts and Jobs Act e il ritiro dagli accordi di Parigi per la riduzione delle emissioni.

Nel primo caso, Stefanik disse che lo faceva per non cancellare delle detrazioni fiscali su cui molti newyorchesi facevano affidamento, a causa delle «spese fuori controllo» del governatore Andrew Cuomo. Ma nel secondo caso, la scelta era più strettamente ideologica.

Stefanik disse che la lotta al cambiamento climatico era una priorità e che gli Stati Uniti dovevano continuare a guidarla, sostenendo quindi implicitamente che Barack Obama aveva fatto bene ad aderirvi. Una posizione radicale di dissenso non solo rispetto a Trump, ma anche dal mainstream repubblicano almeno dai tempi dell’amministrazione di George W. Bush, dove lei aveva lavorato come collaboratrice di Joshua Bolten, capo di gabinetto del presidente.

Diritti Lgbt

Anche su un altro tema ideologicamente caldo come quello dei diritti Lgbt si è messa di traverso. Stefanik è stata appoggiata nel 2020 e nelle elezioni precedenti dall’American Unity Fund, un gruppo di advocacy che promuove l’avanzamento dei diritti egualitari, presieduto da un’accesa critica di Trump come Margaret Hoover.

Nell’endorsement si dice che Stefanik ha dimostrato che «il conservatorismo è perfettamente coerente con la difesa della causa Lgbt». Infine, ha colpito Trump anche in una delle cose a cui nominalmente tiene di più, il blocco dell’immigrazione illegale.

Si è opposta al blocco delle visite da sette paesi a maggioranza musulmana nel 2017 e ha votato per oltrepassare il veto  bloccare la dichiarazione di emergenza al confine nel marzo 2019.

Aveva tutte le carte in regola per indispettire Trump. Ma c’è un forte però: non lo ha mai criticato direttamente.  I provvedimenti venivano definiti «errori» o «non adeguati».

Qualcosa è cambiato

A ottobre del 2019 è arrivato il primo impeachment e qualcosa è cambiato. Il cambio di maggioranza avvenuto col midterm del 2018 le dà occasione non di essere solo una voce ragionevole, che rimane ai margini del mainstream repubblicano.

Si trasforma in una figura che guida l’attacco del principale accusatore del presidente, il deputato democratico Adam Schiff. Trump lo nota. Il 17 novembre 2019 la nomina in un tweet: «A new republican star is born». E lei passa all’incasso: 3 milioni e 200mila dollari vengono donati alla sua campagna per la rielezione nell’ultimo trimestre di quell’anno. Più di Alexandria Ocasio-Cortez.

E nel 2020 è una delle voci principali della convention del Gop che sostituisce la tradizionale piattaforma repubblicana con la «grande fiducia nel presidente Trump», senza aggiungere nulla.

Nei mesi successivi alle elezioni, diventa il megafono delle bufale trumpiane: attacca i giudici «non eletti» (ma in alcuni casi nominati dallo stesso presidente uscente) che sono passati sopra «alla preoccupazione di decine di milioni di americani».

Il suo diventare la deputata favorita di quel leader criticato aspramente nei contenuti, la cambia in modo definitivo.  Una volta finita nella tragedia la contestazione con l’assalto al Campidoglio il 6 gennaio, Stefanik ne critica gli aspetti violenti, ma è una presa di posizione di circostanza.

Rimane ultratrumpiana, smentendo i suoi voti precedenti che la indicavano come moderata: così dice anche il rating assegnato della conservatrice Heritage Foundation sulla fedeltà ai valori repubblicani: 48 per cento di punteggio. Contro l’80 per cento della sua avversaria interna: Liz Cheney.

Molto più fedele di lei all’agenda politica dei quattro anni di Trump, come ha debitamente annotato sul Washington Post l’ex speechwriter di Bush e Rumsfeld Marc Thiessen, con il 92 per cento di voti in linea col partito rispetto al 77 per cento di Stefanik.

Ma questa, in fin dei conti, è la dimostrazione di cosa conta veramente nel partito repubblicano odierno: la fedeltà personale a Trump. E pazienza per i voti scomodi del passato e l’endorsement di nemici accesi come Margaret Hoover.

Per il predecessore dell’attuale presidente conta solo il "qui e ora”. E adesso Elise Stefanik è la persona che lo può aiutare nella sua impresa di fare sempre più suo il partito repubblicano: dopo aver cacciato i Bush e i McCain e aver isolato Mitt Romney, ora tocca a Liz Cheney essere soppiantata dalla figlia di un produttore di compensato, che ha abbandonato i suoi panni di moderata per diventare l’Alexandria Ocasio-Cortez del trumpismo.

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