Un paese che guarda al futuro deve sapere ciò che capita subito oltre le proprie frontiere. A sud di Lampedusa e della Sicilia c’è la Libia e ci sono i paesi arabi del Nord Africa. A Tripoli infuria una guerra vera, anche se spesso scambiamo quella crisi con l’immigrazione.

Ancora più a sud c’è il Sahel. Si tratta di una regione semidesertica ma politicamente in movimento: la crisi libica ha avuto ripercussioni anche lì. Il Sahel sta divenendo una frontiera essenziale per l’Italia: è il nostro sud più profondo, in termini geopolitici si dice “la nostra profondità strategica”.

La politica estera in Africa (inclusa la cooperazione) serve precisamente a questo: stare lì dove le cose accadono per prevenire i pericoli e cogliere le opportunità. Ma l’assenza dell’Italia all’ultimo vertice del Sahel (che si è svolto nei giorni tra lo scorso 30 giugno e il primo luglio in Mauritania) dimostra tristemente la nostra disattenzione e la nostra impreparazione geopolitica.

Mentre infuria il conflitto civile in Libia, i Cinque Stati del Sahel (Mali, Burkina, Niger, Ciad e Mauritania) lottano per non essere travolti. Il loro nemico principale è esterno: il jihadismo di provenienza araba e mediorientale. Ma hanno anche un nemico interno : il rischio etnico di secessione e frammentazione. In quei paesi un’infima minoranza di estremisti radicali potrebbe conquistare il potere politico e imporre la legge islamica: ottenere cioè uno “Stato islamico puro”.

È la solita strategia dei jihadisti islamici: ci hanno già provato in Afghanistan, Algeria, Sudan, Iraq, Siria, Yemen, Libia e così via. In genere riescono solo a scatenare guerre civili interminabili, micidiali e dannose per tutti, anche per loro stessi e soprattutto per il mondo musulmano. Ora ci stanno provando nell’Africa saheliana, soprattutto in Mali perché tra i cinque Stati saheliani è il più importante.

In questi anni, complice l’armamento che giungeva a fiumi dalla Libia esplosa in mille pezzi, si sono armati fino ai denti e fortemente organizzati . La loro idea è stata quella di saldare assieme i propri programmi con le rivendicazioni locali, ad esempio con l’irredentismo tuareg o peul-fulani. Tuttavia, mescolandoli si sono anche spaccati, perché non tutti i “folli di Dio islamici” hanno accettato tale contaminazione: resta una parte di derivazione “Stato Islamico” che ideologicamente non cede.

Sta di fatto che dal 2013, malgrado l’imponente l’intervento militare francese, la maggioranza dei jihadisti del Mali (federati nel Gsim, un gruppo di sostegno dell’Islam e dei musulmani) tengono in scacco forze più numerose e tecnologicamente avanzate di loro. Certo non possono vincere ma non permettono nemmeno la vittoria degli avversari, stremandoli con continui attacchi, sequestri e attentati.

È la strategia della “guerra asimmetrica”: non far vincere l’avversario. Col tempo in aiuto dei francesi sono giunti nell’area militari tedeschi, spagnoli, americani e dall’anno scorso anche italiani, stanziati in Niger.

Dopo anni di guerra e una partizione de facto del paese, con il sud controllato dal governo e il nord in mano agli islamisti, ora il governo del Mali ha impresso una inedita svolta strategica alla sua politica, anche sotto pressione della piazza: ha deciso di tentare un negoziato con il Gsim.

Questa scelta ha colto di sorpresa i francesi e i loro alleati, ma alle varie critiche Bamako secondo quanto riferiscono fonti diplomatiche ha riposto che anche gli americani dopo decenni di guerra stanno ora negoziando con i Talebani.

Dal punto di vista geopolitico è urgente chiedersi cosa significa tale svolta: sta forse cambiando la nostra percezione stessa del terrorismo islamico? Ci appare forse ora più pericolosa l’azione di altre forze: ad esempio quelle di Stati sovrani come la Turchia o l’Iran oppure l’Egitto, che prima vedevano come alleati nella lotta al terrorismo? Sono domande politiche di primaria urgenza.

Di tali interrogativi si è discusso al Vertice del Sahel di qualche giorno fa a Nouakchott, in Mauritania, alla presenza del presidente francese Emmanuel Macron e del premier spagnolo Pedro Sanchez. Anche l’Italia era inviata ma non ha inviato nessun rappresentante di governo. Perché non essere presenti laddove accadono le cose?

Tra l’altro non abbiamo ancora elaborato un pensiero sulla nostra presenza geopolitica nel Sahel e in Africa Occidentale. Sarebbe meglio dire: lo avevamo ma non l’abbiamo nutrito e non ci abbiamo lavorato sopra almeno da due anni. Come in molte altre cose abbiamo peccato di assenza di continuità nelle politiche e nella gestione dei dossier. Eppure molto era già cambiato.

Dopo decenni di assenza, tra il 2012 e il 2018 l’Italia era tornata alla ribalta in quella parte d’Africa. In questi anni ha avuto luogo l’apertura di tre nuove ambasciate tra il 2014 e il 2016 (Bamako, Ouagadougou e Conakry) e di uffici di cooperazione, oltre alla nomina di inviati speciali per il Ciad e il Sahel. L’Italia ha partecipato a tutti i vertici e lavorato per aumentare la cooperazione e lo sviluppo, ma non è mancato un intervento concreto: il governo ha proceduto a interventi importanti di sostegno al bilancio per il Niger, con il quale abbiamo stretto anche un accordo per il contenimento della migrazione. E, infine, dopo aver negoziato con Parigi per una presenza militare, è partita la missione dei soldati italiani in Niger.

Tutto ciò era stato coronato anche da un avanzamento degli investimenti per le nostre imprese: dal 2011 al 2017 l’Italia era passata dal 21° al 3° posto per investimenti diretti in Africa sub-sahariana. Molte erano state anche le missioni istituzionali con le imprese.

Alle nostre aziende serve come il pane un mercato verso sud e l’Africa può essere un buon partner. In questa direzione va spostato l’asse della nostra cooperazione allo sviluppo: iniziative con un mix di Ong e imprese, abbattendo gli steccati ideologici. Si pensi solo ai settori della logistica, del trasporto, delle energie rinnovabili o dell’agro-alimentazione.

L’Italia ha certamente urgente bisogno di una strategia per l’Africa in cui coordinare cooperazione allo sviluppo, politica estera e politica commerciale. Gli strumenti ci sarebbero (Farnesina, ministero dello Sviluppo economico, le agenzie per la promozione delle aziende italiane all’estero come Ice, Sace, e Simest, ma anche Aics e Cassa Depositi e Prestiti) ma manca un pensiero sintetico e un luogo istituzionale adatto. Non basta certo la buona volontà di singoli: serve fare tesoro delle migliori risorse e investirci. Abbiamo molto da guadagnarci sia in termini politici che economico-commerciali.

Purtroppo la crisi da Covid-19 ha fatto emergere i nostri difetti peggiori: c’è timore di cooperare in Africa perché sembra di contravvenire al “prima gli italiani”, senza comprendere che ci conviene eccome. E soprattutto che un grande paese deve stare laddove le cose accadono per prevenire rischi e cogliere le occasioni.

Ma ora la Farnesina non va a pieni giri come potrebbe. Anzi si rischia invece di buttare via ciò che di utile era stato costruito negli anni scorsi. Sarebbe un vero spreco. Tanto più che ciò che accade nel nostro fianco sud è rilevante dal punto di vista strategico: la guerra di Libia sta continuando a cambiare tutti i paradigmi geopolitici precedenti dal Mediterraneo al Golfo di Guinea.

Un’instabilità dell’area attenterebbe alla nostra resilienza interna, si pensi solo al moltiplicarsi delle cause (push factor) delle migrazioni. Se a questo si aggiunge il Covid-19, ecco che il cocktail micidiale è pronto. Allora chiediamo sommessamente al governo: perché non essere stati al vertice del Sahel?

Perché essere politicamente assenti laddove sta nascendo il nuovo “grande gioco”?

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