L’arresto di Steve Bannon, fermato in Connecticut e portato in una prigione federale a New York per truffa e riciclaggio, è una svolta che quadra perfettamente con il suo profilo, che è quello dell’imbroglione astuto, del faccendiere instancabile, del giocatore delle tre carte sul tavolo della geopolitica globale a cui è riuscito il supremo trucco di spacciarsi come una figura a metà fra Richelieu e Rasputin.

Secondo la procura di New York, l’ex stratega della Casa Bianca e manager della campagna elettorale di Donald Trump ha raggirato, assieme a tre complici, centinaia di migliaia di finanziatori di una campagna di crowdfunding per costruire con l’iniziativa privata il muro al confine con il Messico che l’Amministrazione aveva invano promesso di finanziare con i soldi dei contribuenti, o addirittura di far pagare al Messico.

Nel dicembre del 2018, Bannon e i suoi hanno lanciato una campagna di raccolta fondi sulla piattaforma GoFundMe per acquistare terreni in Texas e New Mexico sul confine messicano, dove poi avrebbero edificato una barriera di metallo e cemento, racimolando 25 milioni di dollari. Una cifra notevole, anche se l’obiettivo dichiarato era un miliardo.

L’operazione puzzava di truffa già dal principio, e i primi donatori della campagna si sono indispettiti quando, dopo mesi dall’invio del denaro, ancora non si vedevano le ruspe sul posto. Poi improvvisamente i macchinari sono apparsi, e in tre giorni di fervente lavoro squadre di operai hanno eretto una barriera di un chilometro e mezzo, risultato simbolico immortalato da un teaser trionfale per tranquillizzare i finanziatori preoccupati.


In realtà, i finanziatori avevano tutte le ragioni per essere preoccupati, perché Bannon e compagni, secondo l’accusa, si stavano spartendo fette milionarie del fondo per il muro attraverso un meccanismo di fatture false ed enti non profit fittizi creati appositamente per schermare il raggiro.

Bannon si è fatto rimborsare centinaia di migliaia di dollari di spese e ha ottenuto altri fondi attraverso un’organizzazione da lui controllata. Una truffa in vecchio stile.

Dopo l’arresto, molti hanno detto che incastrare Bannon per frode è un po’ come arrestare Al Capone per evasione fiscale, ma l’analogia tiene fino a un certo punto, perché a conti fatti il ruolo del consigliere nell’affermazione di Trump e nel rafforzamento dei partiti populisti in Europa è stato marginale.


Bannon è stato il manager della campagna elettorale di Trump per tre mesi prima delle elezioni e poi è stato stratega della Casa Bianca fino all’agosto del 2017.

Negli otto mesi in cui ha avuto un ruolo nell’Amministrazione, prima di essere cacciato dal chief of staff, John Kelly, la massima vittoria politica di Bannon è stato il passaggio del cosiddetto muslim ban, un ordine esecutivo per la restrizione dell’immigrazione che ha scritto assieme all'altro consigliere Stephen Miller, e che è stato poi depotenziato da una serie di sentenze.

Lo stratega è stato marginalizzato sulle questioni economiche dalla presenza di Gary Cohn, capo del consiglio economico di filosofia opposta a quella bannoniana, ha faticato a farsi ascoltare, ha brigato invano per conquistarsi un posto all’interno del consiglio per la sicurezza nazionale e infine è stato scaricato dal presidente, che ha detto: “Quando l’ho licenziato, Steve non ha perso solo il suo lavoro, ha perso la testa”.

In realtà, all’inizio Trump non aveva nemmeno scelto Bannon, che era invece un uomo di fiducia del miliardario Robert Mercer, patriarca della famiglia che ha finanziato l’ascesa politica del magnate con il ciuffo. Bannon è stato poi allontanato anche da loro.

Quando si è spostato in Europa per dare vita a The Movement, un centro di coordinamento dei populisti europei, ha ottenuto più pubblicità personale che vera influenza sui partiti e i leader sovranisti che pure ha instancabilmente lodato.

Nigel Farage è stato il suo maggior sponsor da questa sponda dell’Atlantico, Marine Le Pen lo ha dapprima liquidato dicendo “non ha un ruolo nella salvezza dell’Europa” e poi lo ha parzialmente accolto, con Matteo Salvini e Giorgia Meloni ha giocato il ruolo ambiguo del consigliere occulto che promette agganci internazionali e capacità di fare sistema, ma alla fine non è nemmeno riuscito a ottenere la Certosa di Trisulti per installarvi la sua scuola per gladiatori sovranisti.

Anche il cardinale conservatore Raymond Leo Burke, da sempre presentato come il suo grande sponsor in Vaticano, lo ha scaricato.

Nella sua carriera di stratega politico, la sua ennesima vita dopo quella di produttore a Hollywood, manager di Goldman Sachs e direttore di Breitbart, Bannon ha voluto molto e stretto poco, ma ha goduto di una narrazione spropositata che lo ha presentato al mondo come grande burattinaio che muove i fili di chissà quale potere, onnipresente genio del male che sussurra, consiglia, pianifica. Lui ha sapientemente alimentato questa rappresentazione esagerata rispetto a quanto ha fatto.

Il regista Errol Morris, che ha raccontato la tragica e perfino malvagia grandezza di personaggi come Robert McNamara e Donald Rumsfeld, gli ha dedicato un documentario intitolato American Dharma, e nella serrata conversazione con Bannon va alla ricerca della pura scintilla del male, il germe del delirio annidato nell’anima nera del cervellotico kingmaker, ma finisce per trovare solo la mediocrità del piazzista, la banalità di uno spin doctor malvissuto che indossa una camicia sopra l’altra e snocciola citazioni da dolcetto della fortuna.

Bannon voleva essere il personaggio di una tragedia di Shakespeare, e invece è uscito da The Confidence-Man, il romanzo di Herman Melville in cui personaggi meschini cercano di fregarsi a vicenda per un pugno di dollari e un po’ di vanità. L’arresto a New York per truffa è l’incoronazione della sua mediocrità.

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