Nel Brasile devastato dalla pandemia cade dunque la bomba del ritorno sulla scena politica dell’ex presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Ripulito di tutte le pendenze giudiziarie grazie a una decisione “tecnica” della Corte suprema e pronto a tentare il ritorno a Brasilia nelle elezioni del prossimo anno, quando lui di anni ne avrà 76.

Come già nelle presidenziali del 2018, quando l’ex capitano dell’esercito Jair Bolsonaro vinse a sorpresa, quasi soltanto sull’onda dell’indignazione popolare per la corruzione massiccia scoperta nei governi di sinistra, è possibile che la Lava Jato, cioè la Mani pulite brasiliana, sia ancora un fattore determinante per il duello all’Ok Corral tra i due leader.

Tutti gli scenari al momento indicano che la sfida che due anni fa non c’era stata per l’intervento della magistratura (Lula era addirittura in carcere, e ci restò per un anno e mezzo) sarà il ballottaggio più probabile della prossima. Ma potrà un’inchiesta giudiziaria che avrà a quel punto più di otto anni di vita alle spalle superare nella percezione popolare temi come il disastro economico e la pandemia? È tutto da vedere.

Lula non è innocente

La decisione del giudice Edson Fachin, per cominciare, non dichiara l’innocenza di Lula, né invalida il gigantesco vaso di pandora scoperto dai giudici della Lava Jato, tanto che oltre 2 miliardi di reais (circa 300 milioni di euro) di mazzette sono già stati restituiti alle casse pubbliche.

Lula si salva perché la sentenza sostiene che i suoi processi non si dovevano svolgere a Curitiba, dove l’operazione era nelle mani del giudice Sergio Moro, e dovranno ricominciare da zero a Brasilia. Dove la mannaia della prescrizione è già pronta. Di nuovo un parallelo con l’Italia è possibile. Nell’era berlusconiana, il principale indagato la scampava quasi sempre per motivi che poco avevano a vedere con la sua innocenza: o per decorrenza dei tempi, o perché il suo schieramento nel frattempo aveva provveduto a cambiare lo scenario (prescrizioni e depenalizzazioni).

Ma agli occhi del suo elettore tipo Silvio Berlusconi era semplicemente una vittima della magistratura, e le sue fortune e sfortune politiche hanno avuto poco a che fare con l’andamento dei processi.

Così come in altre sentenze a suo favore (tipo quella, ancora una volta tecnica, che lo rimise in libertà nel novembre del 2019) Lula parla oggi di innocenza piena e di persecuzione, invece di limitarsi a ringraziare i propri avvocati e il cambio di stagione nell’orientamento del Supremo tribunale federale.

Per un politico di razza con una vita passata tra le folle, confondere i due piani è uno scherzo. Ancora più far dimenticare che il suo partito ha comunque messo a segno il più grande attacco alle casse di una società pubblica (la Petrobras) del quale si abbia memoria in occidente. E che lui, Lula, non poteva non sapere, come si diceva un tempo anche da noi.

Ed è proprio questo il grande punto debole della Lava Jato: l’accanimento verso il probabile lider maximo della corruzione nazionale sul quale, poiché non vennero trovate prove concrete di aver diretto lo smistamento delle grandi mazzette, la procura di Curitiba optò per imbastire processi minori e assai più deboli. Ricordiamoli. Il primo è il cosiddetto caso del triplex.

Lula è stato condannato in tre gradi di giudizio per aver accettato un attico vista mare sul litorale di San Paolo da un amico costruttore, uno dei grandi committenti della Petrobras.

O meglio, la ristrutturazione dell’appartamento, il quale era stato prenotato regolarmente sulla carta dalla famiglia Lula da Silva qualche anno prima. Poi a quell’acquisto e all’upgrade di favore Lula rinunciò quando la cosa stava per venire alla luce. «Non è mio e non lo è mai stato quell’appartamento», ha tuonato giustamente ai processi.

Tutti i giudici hanno deciso che era comunque «a sua disposizione», come frutto di corruzione. Caso somigliante il secondo, in cui Lula aveva la proprietà – anche se attraverso amici – di una casa di campagna ad Atibaia, non lontano da San Paolo, nella quale al suo ritorno da Brasilia vennero effettuati lavori di ristrutturazione di favore, ancora una volta da una impresa che aveva avuto grandi commesse in cambio di tangenti.

E nuovamente la sfida, persa dagli avvocati di Lula, era tra la proprietà reale e quella formale. Nel terzo processo annullato, quest’ultimo più indietro, Lula avrebbe ottenuto come favore un terreno a San Paolo per costruire l’istituto a suo nome creato dopo aver lasciato la presidenza.

(AP Photo/Eraldo Peres)

Colpevolisti e innocentisti

Secondo i fan della Lava Jato, le cui tesi hanno poi spianato la vittoria a Bolsonaro, le tracce dei vantaggi personali ottenuti da Lula sono evidenti nei tre casi, ai quali vanno aggiunti i soldi guadagnati per conferenze sponsorizzate. Poi ci sono le dichiarazioni dei manager incarcerati a lungo, e quindi pentiti, sulla disponibilità personale a suo nome di milioni di reais. Le quali però non hanno portato a condanne.

L’impressione che i pm di Curitiba abbiano adottato la celebre scorciatoia Al Capone è forte: beccare in castagna il boss per reati minori e risolvere così le lacune investigative. Poi c’è il fronte dell’innocentismo totale, oggi ringalluzzito dall’ultima sentenza: tutto è stato organizzato politicamente da giudici di parte per togliere Lula dalla disputa presidenziale del 2018, e prima ancora per far cadere la sua pupilla Dilma Rousseff, travolta da un assai dubbio impeachment due anni prima.

Comunque la si veda, al centro di tutto c’è la figura del giudice Sergio Moro, il Di Pietro brasiliano, già eroe popolare, poi “aguzzino” di Lula premiato con la carica di ministro della Giustizia nel governo Bolsonaro, e oggi in rotta anche con il leader di estrema destra. Moro è assai importante in tutta la vicenda, soprattutto se è vera la tesi di chi pensa che Lula sia stato graziato per evitare che l’intera Lava Jato venisse affondata. E spieghiamo perché.

In questi giorni, oltre ai ricorsi della difesa di Lula per competenza territoriale di Curitiba, pende all’alta corte brasiliana una questione ancora più seria. Il sospetto che Sergio Moro come giudice abbia agito in modo scorretto e ideologico per togliere l’ex operaio dalla scena politica.

I sospetti sul procuratore

Il caso è venuto alla luce dopo le rivelazioni di Intercept Brasil, il sito di Green Greenwald, il giornalista americano che aiutò Edward Snowden nel caso Nsa. Migliaia di scambi di messaggi su Telegram rivelarono che Moro, giudice, e il pool dei pubblici ministeri, agirono di concerto per organizzare le prove contro Lula, contro le norma della procedura penale, e mostrano senza dubbio una certa partigianeria contro la sinistra. Nelle prossime ore questa seconda mannaia potrebbe cadere sulla testa della Lava Jato, e con conseguenze ancora più gravi.

Se Moro venisse dichiarato di parte, tutta l’operazione può saltare per aria. Potrebbero chiedere la revisione dei processi non solo Lula e gli altri politici, ma anche i corrotti e i corruttori delle imprese. Sarebbe insomma un colpo di spugna mai visto prima.

Secondo una tesi ben accreditata, la sentenza pro Lula del giudice Fachin è arrivata apposta per disinnescare quella contro Moro: affonda i tre processi minori contro Lula per salvare il lavoro di anni.

Come tutto ciò si tradurrà politicamente, in vista del duello finale Lula-Bolsonaro, è tutto da scoprire. L’attuale presidente pensa che battere Lula tra due anni sarà un gioco da ragazzi: sono troppo forti nella memoria dei brasiliani il saccheggio Petrobras e le immagini dell’avversario condotto in carcere. Ma il suo potenziale rivale ha dalla sua armi non di poco conto. Qualsiasi brasiliano, ricco o povero, ricorda che dal 2002 al 2010 viveva assai meglio di adesso.

La gestione Bolsonaro è un disastro, sia sul fronte economico, sia per gli effetti della pandemia: la sua gestione scellerata potrebbe portare il Brasile a superare i 300mila o addirittura i 400mila morti quando la campagna elettorale entrerà nel vivo. La scommessa insomma è aperta.

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