Sedetevi davanti alla televisione e preparate i pop corn. Senza ansia particolare, questa volta non c’è da temere: non ci dovrebbe essere l’inizio della guerra civile americana, né uno scoppio di guerra mondiale dalle parti di Tehran. L’esercito non uscirà dalle caserme; Donald Trump  deve solo scegliere, tra i finali possibili, se essere Il Re Lear di Mar a Lago (definizione perfida del New York Post di Rupert Murdoch, un giornale che un tempo lo idolatrava e oggi lo sbeffeggia), il Riccardo III che si aggira sperduto e disarcionato nella battaglia di Bosworth Field o l’ormai classico Citizen Kane davanti al caminetto di Xanadu con Melania che fa la maglia. Se invece siete degli inguaribili trumpisti (ce ne sono, ce ne sono…., anche tra gli insospettabili) potrete sempre considerare che per lui un’altra occasione si presenterà, nel 2024. O chissà, anche prima.

Ultimo atto

Siamo al quinto atto; il quarto si è chiuso con un vero pezzo di teatro: la registrazione e la trascrizione di un’ora di telefonata tra l’ormai quasi ex presidente (che chiama dalla Casa Bianca, attorniato dagli ultimi funzionari fedeli e da voraci avvocati) e il segretario di Stato della Georgia, Brad Raffensperger, lo sfortunato, ma onesto funzionato repubblicano cui è toccato sovranintendere alla clamorosa e inaspettata sconfitta del suo partito e del suo presidente alle elezioni del 3 novembre.

Allora Trump non voleva crederci: ma come? Per solo 11.000 voti? Perché non siete intervenuti, tu e il governatore Kemp? Fate forse il gioco dei democratici? Lo insultò, lo minacciò e il povero Raffensperger controllò e ricontò, a mano, elettronicamente, poi di nuovo a mano, per quasi una mesata.

Niente da fare, i risultati non variavano. Non solo, ma bisognava fare anche un ballottaggio per i due seggi al Senato, visto che nessuno dei due repubblicani aveva raggiunto il 50 per cento richiesto dal regolamento statale. E quindi, alla fine, non gli restò che certificare il risultato del collegio elettorale della Georgia che manda a Washington i 16 grandi elettori vinti da Joe Biden, per la cerimonia finale di martedi sei gennaio. E il cinque (cioè oggi per chi legge) si vota per i due posti da senatore.  Con un particolare elettrizzante: se vincono i due democratici, il Senato va alla pari, 50 a 50, ma in quel caso (tie, come nel tennis), il tie break lo fa la vicepresidente Kamala Harris; e quindi Biden fa l’en plein: Casa Bianca, Camera, Senato; si può permettere una politica più progressista e non corre il rischio di essere semiazzoppato fin dall’inizio.

Vice President-elect Kamala Harris speaks at a drive-in rally in Savannah, Ga., during a campaign stop for Democratic U.S. Senate candidates, the Rev. Raphael Warnock and Jon Ossoff, Sunday, Jan. 3, 2021. (AP Photo/Stephen B. Morton)

Uno poteva pensare che Trump se ne fosse fatto una ragione; e invece, sabato due gennaio prende il telefono e chiama di nuovo Raffensberger e gli fa una testa così: gli dice che la Georgia l’ha vinta lui per 250.000 voti, che per i dem hanno votato centomila morti, che le macchine conta voti erano truccate. Ah, non lo sapeva, Raffensberg? Ma se lo sanno tutti…

Poi attacca, gli dice che se ha perso la presidenza è colpa sua, che il popolo lo odia, che adesso ai ballottaggi i repubblicani non andranno a votare e quindi si perderà anche il senato, che gli può far passare dei guai, che è un bambino, che è uno schmuck (parola yiddish, tradotta in italiano con “coglione”); ma poi anche lo blandisce, gli dà un’ultima possibilità. Perché non “ricalcolare”? Perché non chiedere un audit che faccia una veloce inchiesta, perché non farla prima del ballottaggio? Raffensberger, naturalmente, non gli dà corda (e intanto registra tutto, come d’altra parte fanno alla Casa Bianca, perché lì forse ci scappa un impeachment in extremis, come quello che portò il presidente alla sbarra quando negò al presidente ucraino Zelensky una vendita di armi se non lo aiutava a trovare del fango sul figlio di Biden; fu salvato dal Senato, come vi ricorderete).

Riccardo III disarcionato

Se avete tempo, ascoltate il nastro, è formidabile. La voce cerca di essere stentorea, da comandante, ma non lo è più. Spesso, da arrogante, diventa lamentosa; il presidente non si rende conto del ridicolo («ho vinto io! Ho vinto io!»). Passa a supplicare, dice che in fondo gli servono solo 11.781 voti, un in più di quelli che ha preso Biden. E’ così difficile?

E qui c’è il suo momento shakespeariano, inconsapevole naturalmente. Riccardo III è disarcionato, la fine è vicina, ma ancora si illude di poter trattare…

«A horse, a horse, my kingdom for a horse…», e subito dopo gli arriverà sul cranio la famosa martellata del futuro Enrico VII.

Trump, invece:

«I only need 11.000 votes, fellas. Give me a break».

Qualcuno può seriamente pensare che uno che non riesce a comprare 11.000 voti in Georgia, possa ordinare un attacco all’Iran, possa imporre la legge marziale che ordini di ripetere le elezioni, convocare le folle populiste? Il telefono dice tutto di te: il capo si è dichiarato un loser, anzi uno schmuck.  

La diffusione della telefonata fatta dal Washington Post è stato l’ultimo chiodo sulla bara? Di certo ha scombussolato i piani del partito repubblicano. Proprio poche ore prima, Trump aveva avuto un certo successo. Si era scoperto che ben cento deputati repubblicani alla Camera (decisamente tanti, un po’ troppi) avevano deciso di rovinare la cerimonia del sei gennaio e, soprattutto era sceso in campo, inaspettatamente, un potente senatore repubblicano.

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Si chiama Ted Cruz, padrone del Texas, signore dei petrolieri, conservatore come forse nessun altro. Nel 2016 fu ultimo avversario di Trump alle primarie e i due si scambiarono i peggiori insulti. Oggi Cruz guida una lista di 11 senatori che chiederanno, mercoledi sei gennaio, di sospendere l’insediamento di Biden e di nominare una commissione d’inchiesta, che “in dieci giorni” faccia chiarezza su cosa è veramente successo il giorno del voto.

Ma come?, gli chiedono: ci sono state 60 cause legali promosse da Trump, tutte perse; si sono pronunciati decine di giudici e addirittura la Corte Suprema; il ministro della Giustizia Barr (che si è dimesso l’altro giorno) ha dichiarato che tutto era stato regolare. Sì, dice Cruz, però la gente mormora, il paese è diviso, una commissione superpartes sarebbe un segno di pacificazione di un paese diviso, e poi aiuterebbe i nostri due senatori in Georgia ad essere rieletti.

Bizantino, il senatore texano (che peraltro ha cambiato look: adesso va in giro con la barba, gli occhiali scuri e un giubbotto di pelle). Curioso che la sua proposta sia maturata mentre Trump faceva il suo ultimo tentativo in Georgia.

Cosa vuole, realmente, Cruz? La mossa sembra chiara: seppellire (stile Antonio sul cadavere di Giulio Cesare)  il suo nemico Trump, e prenderne il posto, diventare l’uomo forte dei repubblicani e il candidato presidente nel 2024. Astuto, ma la telefonata gli va di traverso, e poi bisogna vedere che cosa succede in Georgia, oggi.

L’America del futuro 

In ogni caso, la Georgia sarà la vera vincitrice di questa storia, sarà il futuro dell’America. Nella mitologia del Nuovo Mondo, lo stato è quello di Via col Vento. Qui Lincoln condusse la campagna militare decisiva della guerra civile, e il terribile generale Sherman portò a termine la sua “marcia verso il mare”, in cui mise una divisa agli schiavi liberati, promise loro «40 acri di terra e un mulo», rase al suolo Atlanta, ma salvò Savannah, «perché era troppo bella per essere bruciata». 

I neri della Georgia non ebbero né i 40 acri, né il mulo, molti emigrarono, ma molti anche restarono. Le vecchie mani bianche ebbero sempre il potere e vietarono loro l’accesso al voto, ancora fino ad oggi: fino a ieri la Georgia era un solido stato del sud conservatore, poi è arrivata la vittoria di Biden, patrocinata dall’attivismo di una donna, Stacey Abrams che adesso tutti prevedono avrà un posto nel governo. E con radici in una storia che non si è mai fermata: Raphael Warncock è un pastore battista che predica nella chiesa che fu di Martin Luther King. Nella sua vita non ha fatto altro che scioperare, farsi arrestare, digiunare per i diritti civili. Jon Ossoff ha 32 anni, è figlio di ebrei russi, ha fatto apprendistato in politica con John Lewis, (l’uomo mito che attraversò il ponte di Selma in Alabama), produce documentari sui diritti civili nel mondo.

Sarebbero stati due onorevoli perdenti, fino a ieri. E invece oggi sono dati, sul filo del rasoio, ma in vantaggio. La demografia gioca a loro favore, l’area metropolitana di Atlanta è considerata il più grande polo di sviluppo economico americano del prossimo futuro; ha un gigantesco aeroporto da cui passano – di notte -  tutte le merci americane; di giorno invece, come dicono qui, con orgoglio,  fanno scalo tutti, e quindi anche i neri, che vanno in paradiso.

I sondaggi stanno incoraggiando Warnock e Ossoff, anche se con ogni probabilità non ci sarà un vincitore certo la sera di martedì. E quindi il Congresso si riunirà mercoledi mattina in una situazione strana, per cui dieci ex capi del Pentagono hanno già fatto sapere che l’esercito non interverrà.

Tutti si sono precipitati ad Atlanta – Trump, Harris, Biden, Cruz – per l’ultimo appello. La telefonata di Trump non sta aiutando i repubblicani.

Preparate i pop corn. Io sto su CNN, con una certa fiducia.

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