Scottata dalle proporzioni della sconfitta subita di fronte ad Emmanuel Macron nell’elezione presidenziale francese del maggio 2017 – di cui era peraltro principale responsabile la sua disastrosa prestazione nel faccia a faccia televisivo fra i due turni del voto –, Marine Le Pen ha passato gli ultimi quattro anni a intensificare il maquillage del suo partito e di sé stessa. Già da tempo aveva condotto una campagna di epurazione degli esponenti di base e di vertice colpevoli, o sospettati di coltivare, opinioni troppo estreme o legami personali con esponenti di gruppuscoli radicali, o anche di usare nei post su Facebook o Twitter espressioni troppo irriguardose dei dettami del bon ton politico.

Da allora in poi, noncurante dei contraccolpi negativi che quel modo di procedere provocava sul tessuto organizzativo di una formazione politica che per più di quarant’anni aveva ricalcato il modo di pensare e di esprimersi di Le Pen padre, sprezzante fino ai limiti dell’assurdo e dell’autolesionismo dei precetti del “politicamente corretto” (è difficile dimenticare la sua esternazione sullo sterminio ebraico ridotto a «dettaglio della storia della seconda guerra mondiale»), la sua campagna di “sdemonizzazione” ha toccato altri àmbiti. E ha puntato sulla conquista di una patente di moderazione che sino ad allora nessuno dei suoi molti avversari voleva concederle.

Fuori dalla mischia

L’esempio più palese di questo modo di procedere è stato il rifiuto di impegnarsi nella rivolta dei “gilet gialli”, che per molti mesi ha scosso il paese fra il 2018 e il 2019.

Di fronte a un movimento che esprimeva un viscerale e rabbioso rifiuto della classe politica governativa e reclamava il diritto della gente comune a decidere, per via di referendum, sui temi che toccavano la sua vita quotidiana, giocare fino in fondo la carta del populismo, di cui era considerata, insieme e in concorrenza con Jean-Luc Mélenchon, la principale paladina, è parso a Marine Le Pen troppo azzardato.

Certo, non le avrebbe giovato gettarsi nella mischia in prima persona, perché, essendo ormai considerata una delle figure “classiche” della classe politica professionale, avrebbe rischiato di vedersi accomunata nella violenta ripulsa dell’establishment che contraddistingueva i ribelli della Francia “periferica” e/o “profonda”. Ma tutti i commentatori pensavano che, in quel magma, i suoi militanti avrebbero potuto trovare un fecondo terreno di predicazione, e non erano mancate le allarmate denunce preventive di intellettuali progressisti che prevedevano un passaggio a breve termine dal “giallo” al “bruno” (colore abitualmente utilizzato dagli avversari per evocare lo spettro dell’estrema destra, con riferimento un po’ démodé alle camicie brune hitleriane) dell’esplosione di scontento popolare. Invece, nulla di tutto ciò che si paventava è accaduto.

La presidente del Rassemblement national (nuovo nome del fu Front national) si è limitata a poche parole di circostanza ispirate alla retorica delle promesse tradite da chi avrebbe dovuto rappresentare il popolo, e quando ha visto le marce sugli Champs Élysées degenerare in scontri con la polizia e tentativi (velleitari) di invadere i palazzi del potere e sequestrare Macron, ha raccomandato alle sue peraltro esigue truppe di tenersi lontane da ogni turbolenza.

Perdere al centro

Non potendo o volendo giocare sulla piazza, la leader dei “patrioti” ha cercato di trovare sponde nel palazzo. Ha quindi messo la sordina alle precedenti ripetute proclamazioni di una posizione collocata “né a destra né a sinistra” e agli appelli ai perdenti della globalizzazione, per fare rotta a destra e lanciare messaggi d’intesa agli esponenti dei Républicains che si sentivano poco a loro agio in un partito che stava accentuando il suo spostamento al centro. È riuscita così a catturare qualche nome noto della nomenclatura post-gollista, primo fra tutti l’ex ministro Thierry Mariani, che si sta battendo in queste ore per la conquista della presidenza della regione Provenza-Alpi-Costa Azzurra, e a procurarsi qualche attestato di “normalizzazione” fra dirigenti minori del partito fondato da Sarkozy. Ma non è riuscita a incrinare seriamente il cordone sanitario del “fronte repubblicano” che da decenni sbarra la strada del successo al Fn/Rn, facendogli convergere contro, negli scontri del secondo turno di qualunque tipo di elezione, tutto il resto del panorama politico: dalla sinistra estrema sino alla destra “rispettabile”, passando per centristi ed ecologisti. Per quanto nei mesi più recenti abbia moltiplicato le aperture e fatto appello direttamente ai Républicains, vagheggiando future alleanze di governo nazionali e locali per salvare il paese dalla disgregazione in comunità etnico-religiose reciprocamente ostili e dalla crescita degli atti di violenza urbana, Marine Le Pen non ha ottenuto nessuna risposta favorevole. E, come dimostrano i risultati del primo turno delle elezioni regionali e dipartimentali del 20 giugno, sbilanciandosi verso il centro non ha guadagnato niente ma in compenso ha perso molto. Per l’esattezza, il nove per cento.

La lezione

L’astensione record di due terzi che ha segnato queste consultazioni ha messo in chiara evidenza il grado di disaffezione dei francesi verso i partiti che si contendevano i loro favori. Tutte le inchieste di opinione svolte negli ultimi mesi collegano questo stato d’animo ad un potenziale di consenso per quello che viene indicato come il “rischio populista”. E i sondaggi dei maggiori istituti demoscopici facevano, sino a pochi giorni fa, supporre che quegli umori avrebbero gonfiato le vela del Rassemblement national, dato fra il 28 e il 29 per cento, ma rimasto circa dieci punti sotto quella soglia.

Cosa sia successo, non è difficile decifrarlo. Quegli elettori protestatari che pure continuano a dichiarare ai sondaggisti che, qualora si recassero alle urne fra undici mesi per scegliere il prossimo presidente, affiderebbero il loro bulletin de vote a Marine Le Pen – che così continua a galleggiare in testa alle previsioni del primo turno con poco meno del 30 per cento delle intenzioni di voto –, ben poco convinti del new look moderato e destrorso (e pochissimo propenso, nella campagna elettorale, a sollevare la questione dell’immigrazione e delle minacce all’identità etnoculturale francese, per decenni cavallo di battaglia del Fn, preferendo focalizzarsi sulla cattiva gestione governativa degli affari correnti), hanno preferito aggiungersi al corposo plotone degli astenuti. Il potenziale populista, insomma, è rimasto tale, senza esprimersi e incidere. E a trarre vantaggio da questa situazione sono stati i Républicains, dati per spacciati fino a poche settimane fa e spaccati al loro interno in varie correnti litigiose), che all’improvviso, dopo quattro anni di titubanti rapporti di amore/odio con Macron, che li hanno portati a perdere parecchi pezzi a vantaggio dell’inquilino dell’Eliseo, si candidano a sostituirsi proprio a Le Pen nella contestazione dell’attuale governo.

Certo, c’è ancora il determinante secondo turno prima di poter dire se questo nuovo scenario poggi su solide fondamenta oppure no. Ma una prima lezione sembra sia possibile trarre dal recentissimo voto: i populisti che stemperano il loro discorso per renderlo più compatibile e digeribile a coloro che pensano possano essere i partner moderati della loro strategia, mancano costantemente il bersaglio e fanno il gioco dei concorrenti più diretti. Sta accadendo a Le Pen, ma il discorso vale anche per Mélenchon e la sua France Insoumise, sprofondata sotto il 10 per cento: il primo sondaggio Ifop indica un 75 per cento e un 71 per cento di astenuti fra gli elettori potenziali delle due formazioni.

Non è dato sapere se questi dati stiano suscitando una riflessione in Matteo Salvini e in Giorgia Meloni, alle prese con l’insistente offensiva di Berlusconi per coinvolgerli nella creazione di un partito unico del centrodestra. Certo, le differenze fra i due contesti sono molte: alle politiche in Italia non si vota con il sistema elettorale transalpino a doppio turno, almeno per ora; non c’è un presidente della Repubblica eletto a suffragio diretto, almeno per ora; non c’è una nuova edizione dell’Arco costituzionale in funzione di emarginazione delle parti “estreme”, almeno per ora. E soprattutto non c’è un centro moderato intenzionato ad escludere i concorrenti collocati alla sua destra, anche perché il peso del primo è sì e no un quarto di quello dei secondi. Ma un fattore di cui tener conto c’è: un cospicuo elettorato di sentimenti populisti che potrebbe non gradire l’integrazione nell’establishment delle formazioni che aveva scelto come portavoce: Cinque Stelle da un lato, Lega all’altro. O di quelle che fossero intenzionate a prendere lo stesso cammino e a farsi dettare la linea dai rappresentanti esemplari del ceto politico della cosiddetta Seconda Repubblica.

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