Da pochi giorni Matteo Salvini si era appuntato al petto la stelletta di vicepremier e aveva conquistato la tanto rimpianta poltrona del Viminale, era la fine della primavera del 2018, e il corpo diplomatico italiano a Bruxelles confidava con rara preoccupazione di stare affrontando quesiti che mai erano stati posti ai nostri rappresentanti negli ultimi dieci anni di vita dello stato italiano.

Alle sedi diplomatiche della capitale europea come in quelle americane, il rapporto con Mosca del segretario leghista, eletto al congresso di Torino del 2013 alla presenza di Viktor Zubarev di Russia Unita, è sempre apparso «strutturato» e allo stesso tempo «personale». Questa è la storia di come un leader che per decenni ha occupato il posto di eurodeputato a Bruxelles ha fatto una scommessa pericolosa e politicamente dannata sulle sue alleanze internazionali e sui suoi rapporti personali. E di come invece una politica di estrema destra che ha vissuto la sua carriera dentro al Grande raccordo anulare ha capito che il posizionamento internazionale era fondamentale per portarla a palazzo Chigi.

Anno 2013

La Lega nel 2013 ha conquistato pochissimi consensi. Nelle sue prime elezioni da segretario, Salvini aveva ottenuto poco più del 6 per cento. Ma è in quel periodo che il leader inizia a traghettare il partito verso quel mondo che solo un anno prima a Milano vedeva, al fianco di quelle del Front National e del resto delle destre estreme d’Europa, sventolare le bandiere di Forza nuova.

Il suo progetto si interseca con quello che viene elaborato in Russia. Perché quando l’alleanza transazionale degli euroscettici, da sempre accarezzata da Jean Marie Le Pen, padre di Marine, si realizza, lo fa sotto l’ombrello russo grazie a una strategia studiata e programmata. L’uomo chiave di questa storia è Konstantin Malofeev, l’oligarca multimiliardario, sanzionato dai paesi occidentali dal 2014 per il suo ruolo di finanziatore degli indipendentisti del Donbass, coinvolto direttamente e indirettamente anche nella compravendita di gasolio negoziata all’ormai celebre incontro all’hotel Metropole dell’ottobre del 2018 dall’ex portavoce di Salvini, Gianluca Savoini.

Malofeev da anni è l’ideatore di una serie di incontri con i leader delle estreme destre euroscettiche che occupano posizioni a Bruxelles. La più celebre, nel 2017, è stata organizzata a Coblenza, in Germania, dall’eurodeputato tedesco Marcus Pretzell: 800 ospiti tra cui Salvini, il politico olandese Geert Wilders, Marine Le Pen. Ed è in quella occasione che Savoini annuncia la scelta di seguire il partito austriaco FPO e firmare un accordo con il partito di Vladimir Putin, Russia Unita. Un anno dopo la Lega otterrà più del 17 per cento alle elezioni, per Putin la scommessa è vincente.

Oggi che il segretario leghista si appresta a rientrare al governo, quell’accordo di cooperazione è ancora valido e anche se Salvini smentisce le ricostruzioni sui legami con i diplomatici russi, è entrato e uscito più volte dai palazzi della Repubblica senza mai metterlo in discussione. Gli uomini che a lui sono stati più vicini, come Paolo Grimoldi, per cinque anni, fino al 2021, segretario della Lega lombarda, sono anche quelli che lo hanno accompagnato nell’avventura russa. Grimoldi nel 2014, con una lettera, ha invitato i suoi colleghi deputati e senatori ad aderire al gruppo interparlamentare “Amici di Putin”.

Ma attorno a loro il partito è diverso. Giancarlo Giorgetti è stato apprezzato dal Dipartimento di stato americano come sottosegretario alla presidenza del Consiglio e per le posizioni sul memorandum di adesione alla Via della seta cinese. Massimiliano Fedriga, attuale presidente del Friuli-Venezia Giulia, è stato nelle scorse settimane a New York e stava progettando proprio per ottobre, a pochi mesi dalle elezioni del 25 settembre, una visita a Washington.

La svolta di Meloni

Nel frattempo Fratelli d’Italia, che ha iniziato la legislatura con un partito al quattro per cento, è arrivato, almeno nei sondaggi, oltre quota 20. E lo ha fatto con una strategia molto diversa da quella della Lega.

Non tanto per le scelte interne, che su fisco, diritti civili o migranti sono di destra estrema quanto quelle di Salvini. Giorgia Meloni, che conosce Roma a menadito e Bruxelles non l’ha mai frequentata, ha capito che la destra americana è assolutamente più accettabile per darle levatura istituzionale ed è riuscita, ben consigliata, a prendersi la leadership dei conservatori europei, l’ex partito dei Tory britannici e attuale casa europea del Pis polacco. Ha capito che bisognava guardare prima oltre confine, alle alleanze europee e non solo europee, per completare la sua opera di “redenzione”, de-diabolisation per dirla alla francese.

Per due volte Salvini è stato bruciato in nome di intoccabili legami coi russi e per errori nelle scelte internazionali. Quello che in un’Italia ombelicale chiamiamo “Papeete”, pensando che la rottura tra Lega e M5s che ha portato alla fine del governo gialloverde sia dovuta a bicchieri di Mojito che danno alla testa, è in realtà il frutto del sostegno del M5s alla Commissione europea di Ursula von der Leyen, della fine dell’euroscetticismo grillino.

Le due piramidi rovesciate

Negli anni del governo Draghi, diversi parlamentari di Meloni che seguono dossier economici rilevanti hanno cercato rapporti oltreconfine, con chi conosce il diritto europeo, per muoversi nella cornice che conta davvero. Tuttavia il rapporto tra leadership e base di Fratelli d’Italia è quasi rovesciato rispetto a quello di Salvini. Il partito di Meloni ha la base meno filo atlantica tra i partiti italiani e una leadership che invece, stretta tra Silvio Berlusconi e Matteo Salvini, sta cercando di mostrarsi garante del patto atlantico. Le ultime ricerche di opinione pubblicate da Aspen raccontano che l’elettorato di Fratelli d’Italia è quello più critico nei confronti delle sanzioni alla Russia, con un supporto che si ferma al 63 per cento, oltre dieci punti in meno rispetto all’elettorato leghista che sostiene le sanzioni al 76 per cento e meno di quello dei Cinque stelle (75 per cento) e delle sinistre (72). Meloni ha collocato senza dubbi il suo partito sul fronte atlantico mentre i suoi elettori hanno una storia diversa.

Sarà per questo che Draghi dice di aver apprezzato la «correttezza», questa la definizione che ne ha dato in colloqui informali, della leader “post fascista” sulla guerra ucraina. Una posizione che va di concerto con la nostra appartenenza all’Unione europea e con l’asse atlantico e che in questo momento per tutte le conseguenze del conflitto e il contesto internazionale in cui si inserisce ha un rilievo particolare.

Il salto di Draghi

A palazzo Chigi, alla Farnesina e ai piani alti di Eni, spiega chi conosce bene il lato americano di tutte queste vicende, in questi mesi è stata messa a punto una strategia per renderci autonomi dalla Russia «in raccordo» o «in collegamento armonioso» con gli alleati europei e atlantici. Si tratta di un disegno che a Mosca sicuramente non è stato apprezzato – tanto è vero che ieri Milano Finanza ricordava come Lavrov abbia in programma visite diplomatiche in diversi paesi con cui l’Italia ha stretto nuovi accordi sul gas – e che ha rappresentato un salto di qualità nella visione strategica dell’interesse nazionale italiano.

Proprio per questo l’idea che Claudio Descalzi possa essere invitato a ricoprire un ruolo di governo in un futuro esecutivo di centrodestra non è necessariamente apprezzata oltre Atlantico. La diplomazia americana conosce bene sia la destra italiana sia il Vaticano, e sanno che il motto promoveatur ut amoveatur ha avuto larga fortuna ben oltre le rive del Tevere.

 

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