Dodici giorni, quindici se il mare è molto agitato. Questo è il tempo che ci vuole per raggiungere le coste italiane da Smirne, in Turchia. È la rotta più lunga nel mediterraneo e una delle più insidiose, proprio perché in due settimane i rischi si moltiplicano. Si può morire di fame, di sete, per ustioni da combustibile, per soffocamento o per annegamento. Proprio come accaduto ai migranti sul barcone che lo scorso anno si è sfasciato davanti alle coste di Cutro.

«Piuttosto che risalire tutti i Balcani per arrivare in Europa, molti scelgono la soluzione più pericolosa e più costosa», racconta Hikmet Kara, attivista che lavora con una ong per i diritti dei migranti a Smirne.

Sono soprattutto le donne e i bambini a scegliere di partire via mare, perché oltrepassare il muro di ferro e filo spinato tra Turchia e Bulgaria e poi attraversare le montagne è troppo impegnativo, specialmente in inverno.

E allora il business dei trafficanti ha pensato di puntare su pacchetti all inclusive che, spesso, coprono il viaggio dalla Siria, dall’Afghanistan o dall’Iran fino alla costa turca.

«In questi mesi c’è stato un gran fermento, soprattutto dopo l’incontro tra Giorgia Meloni e il presidente Erdogan – spiega Hikmet - poiché si teme che possa esserci un giro di vite della polizia e della guardia costiera. E allora le reti hanno incrementato i loro affari».

La pianificazione delle partenze è precisa e la gestione dei flussi interni alla Turchia, dai confini orientali fino al mare, è organizzata fin nei dettagli.

«Le persone arrivano a Smirne e si nascondono in case sicure fin quando non pagano per la penultima tratta del viaggio. Solo allora ricevono il messaggio per andare all’appuntamento alla spiaggia», spiega Ayşegül, un’avvocatessa che difende i diritti dei migranti.

Negli ultimi tempi, la polizia ha fatto molte retate nelle case alla periferia di Smirne e nei villaggi attorno. Ed è per questo che i luoghi di partenza dei barconi sono cambiati.

Ora, infatti, i punti caldi sono le zone di Çeşme, Dikili e Karaburun, sulla costa dell’Egeo. La meta principale è la Grecia, in particolare l’isola di Lesbo, che dista solo dieci miglia nautiche. Ma le cose cambieranno.

«I viaggi per la Grecia fruttano pochi soldi ai trafficanti, perché è vicina. Anche se poi riescono più facilmente a recuperare le imbarcazioni e quindi a riciclarle», spiega ancora l’avvocatessa Ayşegül.

L’ultimo arrivo in Calabria

«Ma l’obiettivo è proporre tratte lunghe e con l’inizio della bella stagione le partenze verso l’Italia cresceranno». La rotta turca punta diritto verso la Calabria.

L’ultimo arrivo a Roccella Jonica è stato registrato lo scorso dicembre, poi più nulla. «Noi siamo sempre vigili e pronti all’accoglienza», dicono dalla Croce Rossa Riviera dei Gelsomini che ha un piccolo hotspot al Porto delle Grazie. Proprio lì sono rimaste per mesi le barche a vela con cui sono sbarcati gli ultimi migranti, tutti siriani, afghani, pakistani e palestinesi.

Lunghe anche 15 metri e battenti bandiera maltese o statunitense, queste lussuose imbarcazioni hanno portato a riva fino a 75 persone a volta, per un costo del viaggio di 9mila dollari a persona. Il business delle barche a vela si intreccia con quello dei migranti e anche con quello degli scafisti che, spesso, non sono coloro che vengono arrestati dalla polizia una volta a terra.

«La maggioranza delle volte – spiega Ayşegül – se si tratta di barconi in legno, il timone viene affidato stesso a uno dei passeggeri, in cambio di un grosso sconto sul viaggio. Se invece i migranti sono a bordo di barche a vela, allora il timoniere è un marinaio esperto che si camuffa tra gli altri e spera di non essere preso. In questo caso, c’è stato un cambio di nazionalità della figura dello scafista. Fino al 2021 – racconta ancora l’avvocata - a lavorare con i trafficanti turchi, siriani o iracheni erano marinai ucraini o russi. Ma da quando è scoppiata la guerra ne hanno preso il posto uomini del Kirghizistan, Uzbekistan, Kazakistan e Turkmenistan».

I conti tornano. Secondo i dati del ministero dell’Interno, dei ventitré presunti scafisti, arrestati per aver guidato imbarcazioni provenienti dalla rotta turca, diciotto sono originari dell’Asia centrale.

La rete

Il dato dimostra quanto la rete dei trafficanti sia vasta e il business molto più esteso di quanto si possa immaginare.

«Ci sono i capi del traffico, che tendenzialmente vivono nei paesi d’origine dei migrante; ci sono i mediatori, spesso conoscenti o parte dei clan; ci sono i traghettatori, che di tratta in tratta aiutano i migranti ad affrontare il percorso – spiega Hikmet Kara – E nessuno di loro viene pagato direttamente dalle persone in transito».

È il sistema della hawala, un metodo di trasferimento di denaro non ufficiale basato su un codice di segretezza e d’onore. In pratica, il denaro viene sbloccato dal migrante solo una volta arrivato a destinazione grazie ad un intermediario: spesso è un’attività commerciale insospettabile come un negozio di alimentari.

«In questo modo – aggiunge Hikmet – il migrante ha la garanzia che i soldi non saranno rubati e sa che il traghettatore ha l’interesse a farlo arrivare sano e salvo. Dall’altro lato, il traghettatore può ricevere il pagamento in nero, senza insospettire le autorità».

La realtà del fenomeno migratorio è complessa e la guerra agli scafisti di Giorgia Meloni nel “globo terracqueo” appare sempre più uno slogan vuoto. Senza canali regolari, l’immigrazione clandestina non si fermerà e tragedie come quella di Cutro continueranno ad accade sotto i nostri occhi.

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