All’ultimo tornante dell’Africa, sul territorio più orientale del continente puntato dritto dritto sulla penisola arabica e sull’Asia, al confine estremo di quel grande spicchio di deserto che una volta gli italiani conoscevano come Migiurtina, gli arabi come sultanato di Majjeerteen e molto prima i faraoni come Terra di Punt, sorge da quasi un secolo uno dei monumenti più bizzarri al mondo: un gigantesco fascio littorio, scolpito in pietra e con tutti i necessari rami di betulla, lacci e lama della scure.

È chiamato il faro di Mussolini. È un edificio alto 20 metri che spunta dal promontorio di Capo Guardafui.

Non è un nome indigeno: i navigatori portoghesi del Cinquecento l’avevano chiamato così perché prima lo guardi e poi in genere ne fuggi via, impaurito da tempeste e onde minacciose. Costruito come normale faro nel 1924 e dedicato al presidente del Consiglio risorgimentale Francesco Crispi, poi fascistizzato nel 1930 in omaggio al duce, il faro segnala la fine dell’oceano Indiano e l’inizio del Mar Rosso, cioè la rotta marittima più importante del Corno d’Africa.

Gli ex pescatori armati

Dove siamo esattamente?

Dal punto di vista formale il faro e tutto ciò che lo circonda sono in Somalia, per la precisione nello stato autonomo del Puntland che fa parte della federazione somala, anche se dalla sua tranquilla capitale commerciale, Bosaso, le tribolazioni di Mogadiscio sembrano molto lontane, e non solo geograficamente.

Siamo anche in quella che dieci anni fa era la Repubblica marinara dei pirati, teatro di infiniti drammi di navi attaccate, sequestrate, equipaggi tenuti in ostaggio a volte per anni, consistenti riscatti pagati dopo estenuanti trattative, buttando valige piene di dollari dagli elicotteri delle società che erano specializzate nel negoziare con i pirati stessi, che erano ex pescatori armati di fucile automatico e molta rabbia. Riscatti seguiti da improvvise ricchezze a terra, in piccoli porti della lunghissima costa somala dove prima si sopravviveva a stento con una pesca pre-industriale.

Ma la definizione più aggiornata di questo territorio poco conosciuto non è solo legata alla Somalia o ai pirati, ma a quella di un angolo di mondo che sta acquistando valore strategico e dove molte nazioni hanno iniziato una corsa a esercitare influenza e peso diplomatico.

Il franchincenso

Può sembrare strano, ma non è la prima volta che il misterioso e in apparenza povero Puntland fa gola agli stranieri. Quando era la terra di Punt, in tutto il mondo si sapeva che sul suo difficile terreno cresceva spontanea la meravigliosa pianta del franchincenso, una resina aromatica che sacerdoti, re e aristocratici per millenni avevano importato e pagato a qualunque prezzo. Pianta così rara e ricercata da spingere gli arabi prima a commerciare con i pastori nomadi che ne estraevano la resina, ma anche a rubare le piante e ripiantarle in altri territori, come lo Yemen.

La terra di Punt produceva anche mirra, avorio, legni pregiati, animali esotici, oro, lapislazzuli. Le scritture antiche dicono che il genero di re Salomone portò a Gerusalemme molte di queste merci per abbellire la costruzione dell’omonimo tempio.

Con il passare dei secoli, questo territorio era diventato uno stato moderno, ben organizzato, con traffici commerciali con mezzo mondo, nelle mani del clan migiurtino darod. Guidato dal leggendario Osman Mahmuud, il sultanato migiurtino (e quello vicino di Obbia) a fine Ottocento avevano firmato accordi con l’Italia e con i suoi emissari commerciali, come il leggendario Vincenzo Filonardi, capitano, ambasciatore, imprenditore e pioniere della presenza italiana in Somalia, e il suo rivale Antonio Cecchi.

Vicende antiche e finite nel dimenticatoio. Ora il presidente del Puntland si chiama Said Abdullahi Dani, ex ministro del governo centrale somalo.

Una naziona stabile

Quello che colpisce è che Dani è il sesto capo di stato regolarmente eletto da una nazione nata nel 1998 e da allora sorprendentemente stabile, organizzata, persino prospera, dove si vota senza drammi, si eleggono parlamenti senza guerre civili, si governa senza catastrofi. Cos’è dunque che rende il Puntland un luogo strategico? Dieci anni dopo l’apice della sua crisi, la pirateria è stata sconfitta da una forza militare internazionale, di cui fa parte anche l’Italia. Il franchincenso è vittima della desertificazione e forse del calo della domanda da parte delle chiese. Mirra e lapislazzuli si vendono meno. Ma guardando come sempre alla carta geografica si capisce il perché.

Prima di tutto decine di migliaia di navi cargo passano ogni anno al largo del faro Crispi-Mussolini, venendo da Suez o andando verso Suez. Basterebbe scatenare flotte di pirati ben armati per rallentarne il flusso, a costi incalcolabili per le economie di tutto il mondo. Poi ci sono le risorse ittiche, da non sottovalutare. È stato scoperto anche il petrolio, in mare aperto. Ma il valore principale è geografico: le due cordate rivali Turchia-Qatar e Arabia Saudita-Emirati Arabi Uniti, con i loro rispettivi alleati, hanno deciso che Mar Rosso e Golfo di Aden sono al centro dei propri interessi, perché troppo collegati al Golfo Persico. Nel senso che controllare il Golfo Persico non basta se non si controlla anche quello di Aden. Ciascuna cordata rivendica origini e ragioni storiche: gli ottomani dominavano queste terre così come i mercanti arabi e la Zanzibar omanita. Così società sponsorizzate dalle due cordate fanno a gara per accappararsi contratti di gestione dei porti della regione.

Verso Socotra

Puntland, inoltre, è il ponte naturale verso Socotra, la magica isola a circa 300 chilometri dalla costa somala e 350 chilometri a sud dello Yemen considerata uno dei luoghi più belli della terra. Socotra e il suo arcipelago sono una delle porte di accesso al canale di Suez, cioè buona parte delle rotte commerciali internazionali. Anch’essa famosa per l’incenso e l’aloe, ma oggi soprattutto per la sua biodiversità unica al mondo e il potenziale di destinazione turistica di valore mondiale (è patrimonio Unesco e ha fama di essere una versione tropicale delle Galapagos), Socotra appartiene tecnicamente allo Yemen, anche se l’arcipelago, dove si parla una lingua locale non scritta e pre-islamica, ha una cultura molto diversa dalla terraferma yemenita.

Dal punto di vista della coalizione sunnita saudita, se lo Yemen dovesse finire sotto l’influenza dell’Iran sciita sarebbe ancora più necessario controllare Socotra. Ma anche tra i partner Arabia Saudita ed Emirati c’è concorrenza. L’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) ha spiegato in dettaglio come i governi di Riad e Abu Dhabi ormai in Yemen non sono più allineati, i militari di Abu Dhabi si sono ritirati dallo Yemen lasciando sul campo forze amiche ed entrambi sgomitano per aumentare la propria presenza sia militare che civile a Socotra.

Gli emiratini prima hanno occupato l’isola, che con gli emirati ha antiche tradizioni di immigrazione reciproca, aiutandone lo sviluppo economico ma anche militare. Poi la guardia costiera dell’isola ha innalzato la bandiera del Consiglio di transizione del sud (STC) con capitale Aden (la parte di Yemen alleata agli Emirati), poi sono arrivati i sauditi, poi l’Oman ha fatto da terzo incomodo finanziando le tribù ostili alla presenza sia saudita che emiratina.

Il Somaliland

In questo quadro turbolento, il Puntland si affaccia su Socotra, ma ha una spina letteralmente nel fianco: il Somaliland. Repubblica indipendente autoproclamatasi nel 1991, a differenza del Puntland non fa parte neppure nominalmente della federazione somala. Ma come e ancora più del Puntland è un’isola di stabilità e di pacifico sviluppo economico nel Corno d’Africa. Anche se ufficialmente non è riconosciuta da nessuna nazione al mondo, questa nazione con tre milioni e mezzo di abitanti ha un suo profilo internazionale sempre più solido, con scambi di delegazioni con Londra, Bruxelles e altre capitali.

Tra Puntland e Somaliland ci sono vecchie dispute territoriali su tre territori conosciuti con la sigla SSC (Sanag, Sol e Cayn). In un gioco infinito di rivendicazioni, il Sanag si è dichiarato autonomo sia da Somaliland che da Puntland. Come sempre in Somalia dietro i conflitti politici ci sono quelli tra clan. E dietro i conflitti tra clan c’è la madre di tutti i conflitti: l’infiltrazione degli estremisti islamici, che sperano di fare della Somalia il proprio stato islamico. Sia Somaliland che Puntland li combattono come possono, malgrado le risorse limitate. Con proprie forze armate, moneta, parlamento, bandiera e varie istituzioni, il Somaliland da trent’anni avanza tranquillo, ma ora potrebbe fare passi in avanti più rapidi: il suo più recente successo è il contratto formato con gli onnipresenti emiratini di Dubai Ports World per lo sviluppo del porto di Berbera, che già oggi rappresenta l’80 per cento delle entrate governative e che ha grande potenziale di crescita. In giugno è stato aperto il primo dei nuovi terminal.

Anche l’Etiopia ha quote nel business di Berbera, perché sa di non poter contare solo su Gibuti come proprio sbocco al mare. Soldi, risorse e geopolitica: anche in questo angolo di mondo la mappa finisce per determinare i conflitti. Forse l’avevano capito anche Crispi e Mussolini.

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