Per capire come si è arrivati al rovesciamento della sentenza Roe v. Wade del 1973, che ha regolamentato il diritto all’aborto negli Stati Uniti per quasi cinquant’anni, bisogna rammentare che c’è un personaggio nella politica americana attuale che non teme le sconfitte, se possono portare a una grande vittoria qualche anno dopo.

Forse è uno degli eletti tra i più impopolari anche nel suo stato, il Kentucky. E ancor meno gli interessa di compiacere la stampa: raramente rilascia commenti o interviste.

Il leader repubblicano Mitch McConnell è l’architetto della trasformazione conservatrice della Corte suprema, portata a compimento alla fine dell’ottobre 2020 con il giuramento di Amy Coney Barrett in sostituzione dell’icona progressista Ruth Bader Ginsburg, morta il 18 settembre di quell’anno.

Le origini “moderate”

Per capire dov’è cominciato il rapporto di McConnell con la sentenza Roe v. Wade bisogna andare al 1977, quando il giovane avvocato di Louisville viene eletto “giudice” della contea di Jefferson, una sorta di sindaco metropolitano.

All’epoca era sposato con Sherrill Redmon, una studiosa di femminismo, e per quanto non a favore della libertà di scelta in senso streto, come ha confermato in un’intervista al quotidiano Courier Journal il veterano dem John Yarmuth, deputato al Congresso dal 2007, era comunque un moderato.

Tant’è vero che McConnell ha fatto ampio uso dell’ostruzionismo per far imbottigliare la maggior parte delle proposte antiaborto fatte dai consiglieri di contea.

Prima ancora però, aveva lavorato per un breve periodo a Washington nell’amministrazione di Gerald Ford come vicesottosegretario al dipartimento di Giustizia, dove ha lavorato con due astri nascenti della giurisprudenza conservatrice, Robert Bork e Antonin Scalia, futuro giudice della Corte Suprema.

Lì probabilmente fa propria quella che era l’impressione dei giuristi “originalisti” e di parte dei commentatori conservatori: i giudici nominati anche dai presidenti repubblicani erano troppo progressisti e prendevano decisioni non in linea con il sentire dell’opinione pubblica.

È iniziata così la lunga battaglia di McConnell, citata nel suo memoir The Long Game, pubblicato nel 2014, per trasformare le Corti in questo senso. Nel 1984 viene eletto al Senato e come giovane matricola vota per confermare Scalia alla Corte suprema.

Una trasformazione era possibile e Reagan lo stava dimostrando. Lo dimostrò anche il suo successore, George Bush, che nominò nel 1991 un conservatore afroamericano al posto di Thurgood Marshall, leggenda della stagione dei diritti civili.

Ma è stato quando è arrivato al vertice del gruppo repubblicano nel 2007 che ha potuto finalmente mettere in pratica una strategia ai limiti della legalità per quanto riguarda le nomine giudiziarie: ostruzionismo preventivo e spietato dei giudici nominati da Barack Obama, «nastro trasportatore» (l’espressione è sua) per quelli di matrice conservatrice nominati da Donald Trump, convinto proprio da McConnell a impegnarsi pubblicamente sulla nomina di giudici «con una solida filosofia conservatrice».

A cavallo tra le due presidenze, nel febbraio 2016, muore proprio Antonin Scalia per un malore improvviso. McConnell prende quella che lui ha definito «la più importante decisione della sua vita»: il rifiuto di tenere audizioni per un candidato che sposterebbe a sinistra l’asse della Corte prima delle elezioni del 2016.

L’azzardo riesce e probabilmente porta voti preziosi al candidato repubblicano: Barack Obama non se l’è sentita di adottare il cavillo della nomina durante il recess, ovvero quando il Congresso non è in sessione, per evitare strappi istituzionali.

Violazione che non esita ad attuare nel marzo del 2017, quando rimuove dal regolamento del Senato la regola che chiedeva una maggioranza qualificata per nominare i giudici della Corte suprema.

Grazie a quella manda in porto la nomina di Neil Gorsuch al posto di Scalia dopo oltre un anno di vacanza del posto.

Nel luglio 2018 anche il moderato Anthony Kennedy sceglie di ritirarsi in favore di Brett Kavanaugh, nomina controversa per le accuse di violenza sessuale e per essere stato votato con i voti decisivi del democratico moderato Joe Manchin e della repubblicana centrista Susan Collins, entrambi convinti con la promessa che la sentenza Roe v. Wade non sarebbe stata toccata in quanto «precedente più volte riaffermato dalle corti». Promessa smentita con il suo voto determinante per rovesciarla qualche giorno fa.

Il capolavoro

Con la morte improvvisa di Ruth Bader Ginsburg, McConnell porta a compimento il suo capolavoro: la Corte con Amy Coney Barrett ha nuovamente una maggioranza conservatrice. La sua missione di una vita si è compiuta proprio con la sentenza Dobbs che ha chiuso l’epoca della Roe v. Wade.

Non solo: il portato di questa trasformazione delle nomine giudiziarie federali avrà conseguenze anche sulle leggi proposte dai democratici nel prossimo futuro, magari proprio in tema di aborto.

Dovranno essere scritte in punta di diritto per non venire cassate nuovamente magari da un’altra sentenza. Sicuramente Trump è stato determinante nell’attuare tutto ciò.

Difficilmente però ci sarebbe riuscito senza McConnell, il quale pur non avendo mai avuto l’ambizione di occupare lo Studio Ovale, si sarebbe guadagnato il plauso dei gruppi pro life che lo hanno definito “eroico” e gli insulti di chi teme che un simile sistema, composto da giuristi poco meno che cinquantenni con forte orientamento conservatore posizionati in ogni angolo del sistema giudiziario federale, difficilmente sarà modificabile nel breve periodo.

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