Mentre martedì, quando erano da poco passate le 22.20 locali, Nancy Pelosi sbarcava a Taipei da un aereo di stato statunitense, i caccia della Repubblica popolare cinese si sono alzati in volo sullo stretto di Taiwan. L’esercito taiwanese è in stato di massima allerta, quattro navi da guerra statunitensi – tra cui la portaerei “USS Ronald Reagan” – si sono posizionate a largo delle coste orientali dell’isola, e anche mezzi militari giapponesi sono in navigazione intorno allo stretto.

L’arrivo della terza carica degli Stati uniti d’America (25 anni dopo il precedente di Newt Gingrich) in quello che Pechino considera un suo territorio ci ha mostrato un’anteprima del micidiale conflitto regionale che rischia di esplodere se i vertici di Cina e Stati Uniti non si siederanno quanto prima attorno a un tavolo per riannodare i fili della questione taiwanese spezzati da incomprensioni e sospetti reciproci esacerbati dal trumpismo e dalla pandemia.

La marina dell’Esercito popolare di liberazione ha immediatamente annunciato esercitazioni nel mar Cinese meridionale e ha iniziato cannoneggiamenti nel mar di Bohai. Anche le uniche due portaerei in servizio (la Liaoning e la Shandong) avrebbero lasciato i porti dove erano ancorate, mentre a Xiamen – la città della provincia costiera del Fujian che dista solo 5,5 chilometri dall’isola di Quemoy, controllata da Taiwan – venivano mobilitati mezzi militari e truppe sulle spiagge tra l’incredulità dei bagnanti.

Irritazione cinese

( Taiwan Ministry of Foreign Affairs via AP)

Da Pechino, la portavoce del ministero degli Esteri, Hua Chunying, ha ripetuto che gli Stati Uniti «si assumeranno la responsabilità e pagheranno il prezzo per aver minato gli interessi di sicurezza sovrani della Cina».

Immediata la solidarietà del presidente russo, Vladimir Putin, con il quale Xi ha sottoscritto il 4 febbraio scorso un documento “per un nuovo ordine multipolare”. «Ogni mossa di questo viaggio, compresa la possibile visita a Taiwan è altamente provocatoria», ha sostenuto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov.

«La Russia conferma il rispetto del principio “Una sola Cina” e si oppone all’indipendenza dell’Isola in ogni forma», gli ha fatto eco la portavoce del ministero degli esteri, Maria Zakharova.

mercoledì Pelosi incontrerà quelle che a Pechino chiamano «autorità secessioniste taiwanesi», ovvero Tsai Ing-wen, la presidente rieletta nel 2020, e i notabili del suo Partito progressista democratico al governo. Nella telefonata con il presidente Biden di giovedì scorso, Xi lo aveva invitato a «non scherzare con il fuoco».

Ma Pelosi non ha voluto ascoltare né Biden – che nei giorni scorsi aveva un po’ pilatescamente dichiarato che, secondo il Pentagono, la sua visita a Taiwan «non è una buona idea», né il premier di Singapore (la città-stato da cui è iniziato il suo tour per promuovere l’Indo-Pacific Economic Framework lanciato da Biden) che l’altro martedì le aveva sconsigliato vivamente di intraprendere la sua iniziativa. E nemmeno il New York Times, che aveva provato a fermarla pubblicando le opinioni (contrarie) dei massimi esperti statunitensi di Cina.

Il fattore Congresso

Ora la palla passa nel campo cinese. Come gestirà Xi Jinping quella che – alla vigilia del XX congresso del partito comunista – potrebbe diventare la quarta crisi dello stretto, dopo quelle del 1954-1955, del 1958 e del 1995-1996? Controllo e moderazione, oppure una risposta muscolare nei confronti di Taiwan? Xi è la parte in gioco che rischia di più, e dalle sue mosse dipenderà l’evoluzione di questa querelle iniziata nell’aprile scorso, quando Pelosi, contagiata dal Sars-CoV-2, annullò il viaggio a Taiwan all’ultimo minuto.

Probabilmente la leadership cinese ha intenzione soltanto di mostrare i muscoli, a beneficio di milioni di giovani sedotti dal sogno del “grandioso risveglio della nazione cinese” promosso da Xi, nonché dell’esercito, che ne ha sostenuto l’ascesa al vertice del partito.

Il presidente cinese mobilita le truppe, perché non può mostrarsi debole, ma la sua priorità è il congresso dell’autunno prossimo, al quale dovrà chiedere un inedito terzo mandato a guidare la Cina. Xi e compagni hanno il monopolio assoluto dell’informazione, grazie al quale potranno costruire una narrazione trionfalistica anche di questo confronto con gli Usa, così come avvenuto per la “vittoria nella guerra popolare contro il coronavirus”.

Tuttavia – proprio dai settori dell’esercito e da quelli più nazionalisti all’interno del partito – gli potrebbe essere richiesto qualcosa di più di una reazione simbolica. Ma Xi sa che, in caso di una risposta militare che non fosse semplicemente dimostrativa, la Cina che non ha mai condannato l’invasione dell’Ucraina è pronta a essere messa sul banco degli imputatati da quella stessa parte di comunità internazionale che l’ha condannata per sua quasi-alleanza con Mosca.

Iniziativa personale

Nelle ultime ore da Washington sia il segretario di Stato, Antony Blinken, sia il portavoce per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, hanno provato a gettare acqua sul fuoco sostenendo che il viaggio di Pelosi sarebbe un’iniziativa personale. «Non c’è alcun motivo per cui Pechino dovrebbe trasformare in una crisi una visita coerente con la tradizionale politica statunitense su Taiwan», ha sostenuto John Kirby.

Ma per la leadership cinese è vero esattamente il contrario: il viaggio della speaker della Camera dei rappresentanti è un segnale evidente del sostegno degli Stati Uniti alla presidente indipendentista Tsai Ing-wen e al suo Partito progressista democratico, saliti per la prima volta al potere nel 2016 e riconfermati quattro anni più tardi, quando sono riusciti a mobilitare l’elettorato (che pure aveva contrastato le loro riforme economiche) agitando lo spauracchio cinese, con lo slogan “Hong Kong mercoledì, Taiwan domani”.

Tecnicamente infatti la speaker della Camera è la terza carica dello stato, non un leader politico qualsiasi, ed è come se la sua iniziativa “impegnasse” l’intero governo. Lo stesso Biden del resto negli ultimi mesi è stato protagonista di un paio di gaffe su Taiwan, che in un’occasione ha definito indipendente. L’amministrazione è poi corsa ai ripari, chiarendo che resta fedele al principio “Una sola Cina”.

Vecchia e nuova strategia Usa

Dal 1979 – da quando voltarono le spalle a Taiwan e riconobbero la Rpc per tenerla lontana dall’Urss, con la quale aveva rotto nel 1960 – gli Stati Uniti hanno impostato le loro relazioni non ufficiali con Taipei sulla base dei princìpi di una legge varata quello stesso anno, il Taiwan Relations Act (Tra). Quel provvedimento impegna Washington a fornire a Taipei armamenti a scopo difensivo, ma non la obbliga a intervenire a fianco di Taiwan in caso di conflitto con Pechino (la cosiddetta “ambiguità strategica”). In un comunicato congiunto Cina-Usa del 1982 Washington riconosce che «la Rpc è l’unico governo legale della Cina», tuttavia “prende atto che” ma non “riconosce” «la posizione secondo la quale c’è una sola Cina e Taiwan fa parte della Cina».

Negli ultimi anni si sono moltiplicate le voci in seno al Congresso che chiedono un abbandono della “ambiguità strategica” e un sostegno aperto da parte di Washington alle rivendicazioni indipendentiste di Taipei.

Il governo di Tsai ha puntato sull’internazionalizzazione della questione taiwanese e sul sostegno degli Stati Uniti, in particolare su politici, come Nancy Pelosi, sui quali ha fatto lobbying attraverso società statunitensi di pubbliche relazioni.

Taiwan, una vivace democrazia parlamentare con un governo indipendente di fatto, si è trasformata sempre più una bomba da disinnescare, perché – con la sua posizione – è diventata un alleato irrinunciabile nella strategia Usa di contenimento della Cina, che vorrebbe espandere la sua influenza sull’isola fino a “riunificarla” pacificamente alla madrepatria, come dicono a Pechino.

Questo progetto, assieme a quello Usa di sostenere sempre più le rivendicazioni indipendentiste, vanno messi in pausa. Pechino e Washington devono parlarsi, per evitare che la quarta crisi dello Stretto diventi quella che non dimenticheremo mai.

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