«Dissuadere l’aggressione, restando pronti a prevalere sul nemico in caso di guerra, attribuendo priorità alla sfida della Repubblica popolare cinese nell’Indo-Pacifico, quindi alla sfida della Russia in Europa». È quanto riporta la scheda informativa del Pentagono sulla versione classificata della nuova National defense strategy fornita al Congresso lo scorso 28 marzo, in cui, senza mezzi termini, si sottolinea che Pechino è per Washington «il competitor strategico più rilevante». Mosca, invece, «pone gravi minacce» che richiedono «la collaborazione con gli alleati della Nato».

È alla luce della crescente competizione nell’Indo-Pacifico, pertanto, che va interpretata la posizione americana su tre questioni cruciali per il ripensamento dell’Alleanza atlantica nel prossimo Concetto strategico: gerarchia dei nemici, perimetro d’azione e suddivisione degli oneri.

Dall’Urss alla Cina

Le alleanze sorgono quando due o più stati condividono una medesima minaccia, che li induce a promettersi mutua assistenza militare. Nel patto atlantico non era esplicitata l’identità della fonte dell’attacco atteso contro Stati Uniti, Canada ed Europa occidentale. Nel contesto della Guerra fredda, tuttavia, era pacifico che se questo fosse divenuto realtà sarebbe stato a opera dell’Urss.

L’implosione del blocco sovietico generò così un dilemma esistenziale per la Nato, tale da rendere non scontata la sua sopravvivenza a questa cesura storica. La soluzione fu trovata nel porre l’accento sugli obiettivi secondari dell’Alleanza nonché sulle nuove minacce sorte a inizio anni Novanta. Soprattutto dopo gli allargamenti del 1999 e del 2004, la scomparsa di quel minimo comun denominatore strategico che era stato l’Unione sovietica ha innescato alcune inedite divisioni tra gli alleati.

Se gli stati dell’Europa orientale hanno visto nella Federazione russa la principale minaccia da fronteggiare, quelli dell’Europa meridionale – Italia in testa – hanno spinto affinché si prestasse maggiore attenzione ai pericoli derivanti dall’instabilità politica della sponda sud del Mediterraneo, come terrorismo, organizzazioni criminali e flussi di immigrazione clandestina.

Negli anni della presidenza Obama, invece, gli Stati Uniti hanno reimpostato la loro grande strategia intorno al pilastro del pivot to Asia, con il sostegno delle altre potenze anglosassoni. Con l’amministrazione Trump, si è cominciato a parlare esplicitamente della “minaccia cinese” e Washington ha ottenuto che, nella dichiarazione finale del summit di Londra 2019, la Nato assumesse per la prima volta una posizione in merito, pur adottando una formula di compromesso capace di tenere insieme la prospettiva americana con quella europea. Nel documento, infatti, si legge: «Riconosciamo che la crescente influenza e le politiche internazionali della Cina profilano tanto opportunità quanto sfide che dobbiamo affrontare insieme come un’Alleanza».

L’atteggiamento della Casa Bianca non è cambiato con l’insediamento di Joe Biden. Al summit di Bruxelles 2021, infatti, gli Stati Uniti hanno ottenuto dagli alleati un ulteriore passo in avanti rispetto al 2019. Pur ribadendo l’interesse della Nato a cercare con Pechino un «dialogo costruttivo», la dichiarazione finale parla esplicitamente della Cina come di «una sfida sistemica all’ordine internazionale fondato sulle regole» oltre che nei confronti di «aree rilevanti per la sicurezza dell’Alleanza».

Out of area o out of business

Dall’identificazione delle minacce a cui è soggetta l’Alleanza atlantica discende la definizione del suo perimetro d’azione, che si è rivelato un elemento di tensione ricorrente tra gli Stati Uniti e gli alleati. Gli articoli 5 e 6 del Trattato di Washington, infatti, stabiliscono una sua delimitazione ai territori europei e nord americani dei paesi membri. Negli anni Novanta, di fronte all’inerzia delle potenze europee, la Nato divenne lo strumento più efficace per risolvere le ripetute crisi nei Balcani, aprendo la porta alle prime operazioni out of area, realizzate comunque in prossimità dei confini di alcuni paesi membri in nome dei princìpi della prevenzione della minaccia e dell’ingerenza umanitaria.

È solo dopo l’11 settembre che si arrivò a un più radicale mutamento. All’indomani degli attacchi terroristici di al-Qaeda, infatti, il Consiglio atlantico affermò che questi rientravano nella lettera dell’articolo 5, avviando così la progressiva trasformazione della Nato in un’organizzazione di sicurezza con ambizioni globali. Nell’immediato, tuttavia, nessuna delle decisioni prese dal Consiglio ne prevedeva la partecipazione alla campagna americana contro l’Afghanistan, ma la circoscriveva al pattugliamento dei cieli degli Stati Uniti con l’operazione Eagle Assist. È con l’autorizzazione delle Nazioni unite alla missione Isaf del dicembre successivo che la Nato entrò nel paese centroasiatico, con un impegno dapprima limitato alla città di Kabul e alla base di Bagram, che poi fu esteso all’intero paese nel 2003.

Dalla prospettiva di Washington l’ascesa di Pechino e gli strumenti aggressivi a cui fa ricorso – campagne di spionaggio, disinformazione informatica, cyber attacchi e, in ultimo, gestione non cooperativa della pandemia – rappresentano una sfida non solo per la sicurezza americana ma per quella dell’intera Alleanza. Con toni diversi, inoltre, alcuni paesi Nato hanno ammesso un certo grado di interdipendenza tra la sicurezza transatlantica e le dinamiche dell’Indo-Pacifico, da cui originano o transitano i principali flussi commerciali e le forniture energetiche verso il Mediterraneo.

La posizione americana sul perimetro d’azione della Nato, pertanto, è oscillata tra due richieste. Da un lato, quella di assumere maggiori impegni sulle questioni strategiche globali in modo da scongiurarne uno slittamento out of business. Dall’altro, quella di un contributo circoscritto al nord Atlantico per contrastare le minacce che sopraggiungono dall’Indo-Pacifico unita al rilancio di progetti di sicurezza cooperativa con i paesi che in quest’area coltivano interessi coerenti ai suoi.

Condividere il fardello

È negli anni del secondo mandato di George W. Bush che la necessità di una più equa redistribuzione degli oneri dell’alleanza ha acquisito per la prima volta un carattere di urgenza, parzialmente soddisfatta dal sostegno offerto da alcuni alleati alle operazioni militari non-Nato in Iraq. Con Barack Obama, la Casa Bianca non si è discostata da queste posizioni. Il ritorno al multilateralismo prospettato dal nuovo presidente, infatti, non è stato declinato nella condivisione delle scelte, come ai tempi di Bill Clinton, quanto in quella delle responsabilità. Il suo rilancio, pertanto, implicava la disponibilità degli alleati a sobbarcarsi una fetta maggiore di costi umani ed economici del mantenimento della sicurezza comune. In occasione del summit in Galles del 2014, Washington ha così ottenuto dagli alleati l’impegno formale ad allocare almeno il 2 per cento del Pil nella difesa.

Negli anni dell’amministrazione Trump la polemica sulla redistribuzione degli oneri ha assunto toni ancor più aspri. Se ancor prima del suo insediamento il tycoon l’aveva definita «obsoleta» nel formato attuale, la sua National security strategy rincarò la dose parlando di un unfair burden sharing tra gli alleati. Questi eventi, uniti alla preferenza del nuovo corso alla Casa Bianca per i rapporti bilaterali piuttosto che per i contesti multilaterali, hanno reso più credibile la tentazione americana di disimpegnarsi progressivamente dal continente europeo. Al termine del summit di Bruxelles 2018, tuttavia, la dichiarazione finale degli alleati ha registrato con soddisfazione l’aumento generale delle spese militari.

Sebbene anche l’amministrazione Biden si sia dichiarata sin da subito interessata al rilancio dei contesti multilaterali, non sembra aver abbassato la guardia sul tema della redistribuzione degli oneri, né su quello del taglio agli impegni non essenziali (come dimostrato dal ritiro dall’Afghanistan). D’altronde, la sfida revisionista cinese e russa rende cruciale il mantenimento della supremazia tecnologica della Nato, richiedendo a tutti nuovi investimenti.

Non è da escludere comunque che gli Stati Uniti stiano calcando la mano sulla minaccia cinese e sulla proiezione globale della Nato, in modo da ottenere dai paesi europei maggiori concessioni sul tema del burden sharing. Questo permetterebbe loro di ingaggiare una competizione serrata con la Cina e impegnarsi nell’Indo-Pacifico allontanando contemporaneamente lo spettro dell’imperial overstretch.

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