All’Aja non si sono verificate le dispute che si erano viste nel 2018. Al di là dei proclami, le uniche certezze sono l’imprevedibilità del tycoon e il disimpegno americano. Ora si tratterà di vedere come l’Ue intende prepararsi a questi nuovi scenari. In tutto questo, l’Italia continua a navigare in uno stato di estrema confusione strategica
Alla fine dunque, nonostante i timori della vigilia, Donald Trump è venuto e si è mostrato tutto sommato ragionevole con gli alleati. Del resto, il summit Nato che si è appena concluso all’Aja gli ha generosamente offerto un’opportunità preziosa per un altro giro d’onore: se le parole con cui lo ha accolto il segretario generale Mark Rutte sono state all’altezza della sua fama di “Trump whisperer”, la dichiarazione comune - la più breve dell’ultimo decennio (una sola pagina) - contiene l’impegno collettivo degli alleati a spendere fino al 5 per cento del loro Pil sulla difesa, in linea appunto con una richiesta fatta mesi fa da Trump che, all’epoca, molti avevano ritenuto fantasiosa e del tutto irrealistica.
Al di là delle domande di esenzione dell’ultima ora di Spagna e Slovacchia, la formula “Allies commit” (al posto di “we commit”, troppo vincolante pure per Washington) che ha annunciato il nuovo Defence Investment Plan ha consentito di evitare dispute acrimoniose come quella con cui Trump si era presentato per la prima volta alla Nato nel luglio 2018.
La “soluzione 5 per cento” è un successo per Rutte, che ha saputo trovare la quadra per blandire il presidente americano venendo nello stesso tempo incontro alle esigenze di diversi alleati europei con una certa flessibilità sia nell’allocazione nazionale delle risorse (fra il 3,5 e l’1,5 per cento) che nella tempistica: la scadenza per rispettare il nuovo target è infatti il 2035, sia pure con un “tagliando” già entro il 2029 - anche per evitare quello che è successo negli ultimi 2 anni, con aumenti di spesa affrettati (e perciò potenzialmente dispersivi) per rispettare il vecchio target ed evitare l’ira di Trump. In effetti Italia, Spagna, Canada, Belgio, Portogallo e Lussemburgo raggiungeranno il 2 per cento solo quest’anno.
Guadagnare tempo
L’enfasi sugli obiettivi di spesa può apparire esagerata, anche se oggi è meglio collegata rispetto al passato agli obiettivi di capacità militari decisi dai ministri della difesa alleati pochi giorni fa. Ma, oltre ad aver disinnescato a monte un’altra possibile controversia transatlantica e celato le divergenze su Russia e Ucraina, è servita anche per guadagnare tempo, a valle, in vista del già annunciato disimpegno americano dal continente europeo.
La difficoltà di fronte a cui si trovano gli europei, anzi, sta proprio nel capire in quali tempi e quali forme quel disimpegno potrà materializzarsi, e con quali implicazioni per la loro sicurezza. Pare che il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius abbia sollecitato Washington a presentare agli alleati un piano di massima in questo senso, dato che il disimpegno americano avrà un impatto notevole su come e quanto investire in Europa per mitigarne le possibili conseguenze - non tanto in termini di forze vere e proprie (gli Usa hanno comunque tuttora oltre 100mila militari sul continente, di cui 10mila in Italia e 20mila stazionati nei paesi a ridosso al conflitto russo-ucraino) quanto soprattutto in termini di capacità (i cosiddetti strategic enablers, dai satelliti alle difese antimissile), che sono molto più ardue e costose da (ri)costituire.
Mani libere
Al momento, tuttavia, Washington preferisce tenersi le mani libere. Non ci sono soltanto l’instabilità e la volatilità del contesto strategico – a cominciare dall’Ucraina – o il fatto che Pete Hegseth abbia appena lanciato una revisione della defence strategy nazionale che dovrebbe concludersi a fine estate con una nuova defence posture degli Stati Uniti. C’è pure da mettere in conto lo stile politico di Donald Trump, che ama fare della propria imprevedibilità e perfino volubilità uno strumento di pressione politica, anche (se non soprattutto) verso i paesi “amici”. La sequenza di minacce, tentativi di deal, annunci di misure estreme, improvvisi voltafaccia e precoci giri d’onore – già vista nelle dispute commerciali – è ormai messa in atto anche in materia di sicurezza internazionale, come si è visto perfino in Medio Oriente negli ultimi giorni.
Quello che Zaki Laidi, su Le Monde, ha definito "geo-narcisismo” ha del resto già investito la Nato in passato e, anche dopo l’Aja, non ci sono garanzie che non riservi nuovi shock - verbali e non: emblematica la persistente riluttanza di Trump (anche a bordo dell’Air Force One che lo ha portato in Olanda) a riaffermare chiaramente la validità dell’articolo 5.
Già oggi i leader dei 27 partner Ue si riuniscono per il loro summit, a Bruxelles, e sarà interessante capire come intendono prepararsi al disimpegno americano, che potrebbe iniziare già a settembre con il taglio degli aiuti (innanzitutto economici) a Kiev. Proprio nei giorni scorsi, sulla scia di Londra, Australia e Canada hanno firmato con l’Ue partenariati di sicurezza e difesa - che dovrebbero fra l’altro dischiudere loro l’accesso ai nuovi fondi comunitari per l’industria militare – a prova di quanto perfino la cosiddetta anglo-sfera (governata da forze di centro-sinistra) si stia riposizionando.
Per gli europei, la vera sfida consisterà nel preservare il grande patrimonio di deterrenza e interoperabilità della Nato sviluppando nello stesso tempo al suo interno, e anche attraverso la Ue, le capacità militari e la coesione politica indispensabili per poter fare a meno - dovesse davvero dimostrarsi necessario – dell’attenzione e protezione di Washington.
Dispiace che, in una situazione così grave ed incerta, l’Italia si trovi in uno stato di estrema confusione strategica e perfino comunicativa, fra le frasi a ruota libera del ministro Crosetto sull’inutilità dell’Alleanza e l’irrilevanza dell’Unione, la strana scelta di Meloni a favore di un pilastro europeo della Nato ma contro una presunta difesa “parallela” della Ue, le simpatie putiniane di Salvini e le crociate contro l’Alleanza e il riarmo europeo di quel Giuseppe Conte che pure, da presidente del consiglio, aveva portato la spesa militare italiana ai livelli più alti di questo secolo (almeno fino a quest’anno). Forse non c’è motivo di stupirsi, allora, se nel sondaggio d’opinione appena diffuso dall’European Council on Foreign Relations l’Italia è l’unico paese europeo con una maggioranza contraria ad aumentare le spese per la difesa – con buona pace degli impegni appena assunti a livello multilaterale.
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