Con l’invasione dell’Ucraina e l’amplificazione della retorica del Cremlino viene da chiedersi se esista e in che misura un nesso tra nazionalismo russo, militarismo e strategia bellica. Alcuni elementi suggeriscono uno stretto legame tra la narrazione patriottica di Putin e le modalità con cui i russi fanno la guerra.

Nel suo libro Russia, the Story of War, il professor Gregory Carleton della Tufts University fa notare l’entusiasmo dei politici di Mosca nel ricordare la storia militare nazionale: per il nazionalismo russo la storia si ripete nel corso dei secoli con uno schema di conflitti in cui cambiano i nomi degli avversari, ma si fondono in un paradigma universale in cui il popolo russo è la vittima e affronta un nemico superiore sino alla vittoria.

Fiducia nell’esercito

Secondo un sondaggio del centro Levada del 2020, le forze armate erano l’istituzione di cui i russi si fidavano maggiormente, anche più del presidente della Federazione. Le forze armate sono percepite non tanto come un’istituzione efficiente, quanto piuttosto come l’incarnazione di una serie di valori nazionali, anche se questa visione è più radicata nelle vecchie generazioni e ha svolto un ruolo di stabilità nella transizione dall’Urss alla Russia odierna.

Nel 2017 la fiducia nell’esercito ha toccato il suo apice con il 69 per cento degli intervistati che hanno risposto al sondaggio di Levada, ritenendo l’apparato militare affidabile e credibile. Un elemento non approfondito da questa indagine demoscopica è la corruzione endemica nelle forze armate, sia per quanto riguarda il servizio di leva che per le forniture, ma anche il duro sistema di nonnismo conosciuto come dedovshchina.

Nel 2019, comunque, il 60 per cento degli intervistati riteneva che «ogni vero uomo dovrebbe prestare servizio militare». Una tendenza rilevata dallo studio conferma che questa affermazione è più consolidata nelle periferie e nelle zone rurali della Russia profonda, mentre nelle metropoli come Mosca la leva è considerata più come un obbligo, una sfortuna o un problema da evitare.

Educazione patriottica

Le politiche giovanili della Federazione russa includono un programma di educazione patriottica, implementata dal ministero della Difesa e da quello dell’Istruzione. Varie organizzazioni governative servono a questo scopo. Yunarmiya è stata fondata nel 2015 come movimento giovanile patriottico che prepara i futuri cadetti militari.

Alcuni ricercatori hanno identificato come elementi chiave della narrazione di Yunarmiya l’eroismo, il machismo, il cittadino-soldato e la tradizione militare. Si tratta di una replica del Komsomol sovietico, con una presenza capillare nelle scuole per inculcare il nazionalismo e l’ideologia sin dall’adolescenza. Non è un caso che il cuore delle attività di Yunarmiya sia il parco divertimenti a tema militare “Patriota” costruito vicino Mosca nel 2016.

Anche le organizzazioni cosacche hanno un ruolo importante nella tradizione militare, mentre il Dosaaf è l’organizzazione sportiva paramilitare che avvicina i giovani alle forze armate attraverso la preparazione atletica in varie discipline. Ad esempio, se un giovane russo vuole provare il paracadutismo può farlo attraverso il Dosaaf. Se poi sarà chiamato nel servizio di leva, verrà probabilmente assegnato a un’unità di quel tipo per l’infarinatura ricevuta da civile. Si tratta di organizzazioni patriottiche che ricalcano quelle sovietiche, con la stessa celebrazione dei valori militari russi.

Con russi, non si intende necessariamente l’identità del gruppo etnico slavo, ma della Federazione che include una serie di popoli. Infatti, in russo esistono due termini per distinguere tali accezioni: russki e rossijski. Questa ambivalenza ha anche riflessi nella sfera militare. Infatti, da un lato Mosca tende a enfatizzare nella sua retorica marziale il panslavismo. Un esempio è l’esercitazione Fratellanza slava, che si svolge ogni anno dal 2015, ospitata a rotazione da Russia, Bielorussia e Serbia. Nel 2020 avrebbe dovuto tenersi in Serbia, ma i brogli elettorali e la brutale repressione del regime di Lukashenko hanno spinto Belgrado a sospendere la partecipazione serba, dietro pressione dell’Unione europea.

Dall’altro lato, tuttavia, il Cremlino ci tiene a sottolineare la natura multietnica delle sue forze armate, perché le minoranze nazionali forniscono un bacino fondamentale per alimentare i coscritti. Anche da qui emerge l’universalismo moscovita, disposto a inglobare altri gruppi nazionali europei o asiatici, purché riconoscano un ruolo di primus inter pares al russo.

Altre ambivalenze

Le regioni con maggiore fertilità della Federazione sono quelle siberiane o del Caucaso, abitate da minoranze, mentre il declino demografico colpisce soprattutto quelle occidentali dove vivono cittadini etnicamente russi. Tra i caduti in Ucraina ci sono migliaia di tatari, daghestani, mordoviani, buriati, tuvani e calmucchi, oltre ai ceceni. Nel suo discorso alla nazione, infatti, Putin ha citato vari gruppi etnici per spegnere sul nascere eventuali proteste e rivolte separatiste. Se le famiglie di Mosca e San Pietroburgo cominciassero a perdere i loro figli in Ucraina con il ritmo dei siberiani, probabilmente l’apprezzamento per il regime sarebbe drasticamente ridotto e il governo sarebbe a rischio.

Tornando al nesso tra nazionalismo e militarismo, ritroviamo una precisa volontà del Cremlino di forgiare forze armate leali al regime. I programmi curricolari introdotti nel 2018 dal Direttorato politico-militare del ministero della Difesa russo prevedono che vengano impartite 60 ore annuali di indottrinamento politico per gli ufficiali, 80 per i soldati di carriera e 160 per quelli di leva.

L’obiettivo dichiarato di questi corsi è contrastare «la propaganda occidentale anti-russa condotta dagli Stati Uniti e dai suoi satelliti nel corso della guerra informativa». Tale risultato si può ottenere, secondo il giornale del ministero della Difesa, rendendo il personale «immune dai valori culturali e ideologici alieni alla nostra società». Sono stati reintrodotti dei commissari politici sulla falsariga di quelli sovietici (zampolìt), con il compito di tenere alto il morale delle truppe e favorire la loro «omogeneizzazione politica».

Anche sul campo di battaglia troviamo un’altra ambivalenza dell’ideologia nazionalista. Se la narrazione ufficiale descriveva gli ucraini come fratelli slavi da liberare dal gioco di una giunta nazista, che avrebbero accolto a braccia aperte gli occupanti, i soldati russi hanno invece sperimentato un’accanita resistenza anche nelle regioni russofone.

L’ambivalenza deriva dal fatto che la narrazione ufficiale ha lasciato il posto ai sentimenti più spontanei dei russi verso i locali. Lo testimoniano i massacri di civili a Bucha, Mariupol e in altre città. Nelle conversazioni intercettate dai servizi di Kiev tra soldati russi e parenti spesso si sente dire che gli ucraini sono subumani inferiori, bestie naziste da sterminare, in certi casi è persino ammesso lo stupro delle loro donne come razzia di guerra.

La parata del 9 maggio

Per comprendere il nesso tra nazionalismo russo e militarismo è forse sufficiente pensare alla parata per la Giornata della vittoria del 9 maggio, che nella Piazza Rossa di Mosca vede sfilare reparti e mezzi militari. Si celebra la vittoria sovietica sul nazismo con le coccarde arancione-nero di San Giorgio, ma negli ultimi anni l’apparato di propaganda russo ha tentato un’operazione di revisionismo storico affermando che fu l’Unione sovietica da sola a sconfiggere Hitler. Ritorna la narrazione di una Russia vittima di un aggressore: la Nato, l’Ucraina, etc, che esce vittoriosa da uno scontro impari.

Le autorità delle repubbliche separatiste fantoccio di Donetsk e Lugansk hanno annullato la parata militare per la Giornata della vittoria che doveva tenersi il 9 maggio a Mariupol, complice la strenua resistenza degli ucraini nelle acciaierie Azovstal e la distruzione dell’intera città nell’assedio. Si sono limitate a una marcia civile con in testa Denis Pishilin, il capo di Donetsk.

Mentre nella Piazza Rossa a Mosca sono stati rappresentati solo 25 sistemi di combattimento terrestre con 131 veicoli, a differenza dei 35 sistemi con 198 veicoli dell’anno scorso, con una diminuzione di oltre un terzo.

Putin ha ribadito gli stessi concetti sulle provocazioni atlantiste, ma non ha annunciato una mobilitazione generale o una dichiarazione di guerra. Grande assente è comunque il generale Valeriy Gerasimov, dato per ferito sul campo dall’artiglieria ucraina a Izium, dove ha fallito nella sua missione di sfondamento.

La retorica militarista del Cremlino ha fatto credere ai russi e agli occidentali che le sue forze armate fossero un formidabile strumento degno di una potenza globale, ma alla prova dei fatti si sono dimostrate mediocri e piagate dalle contraddizioni nascoste dietro la cortina fumogena del nazionalismo.

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