«Quel che vediamo all’opera quando i corpi si radunano nelle strade, nelle piazze o in altri spazi pubblici, è l’esercizio del diritto di apparizione, una richiesta incarnata di vite più vivibili... nonostante siano spesso animate da propositi politici diversi, nelle dimostrazioni di massa che si svolgono per le strade e nelle piazze i corpi si riuniscono, si muovono e parlano insieme, rivendicano un certo spazio in quanto pubblico». Così scriveva Judith Butler in L’alleanza dei corpi (Nottetempo, 2017) indagando la comparsa sulla scena, il “diritto di apparizione” nel campo politico, nella lotta per la democrazia, del corpo, dei corpi.

Dimenticati nel biennio del Covid, distanziati nei lockdown, resi virtuali nei collegamenti da remoto, isolati nelle case e nascosti nelle strade, nell’anno che si chiude i corpi sono tornati a unirsi, a mescolarsi, a riscrivere l’agenda della politica mondiale.

Rivoluzione

(Europa Press via AP)

Nel 2022 sono stati i corpi a far tremare il regime islamico di Teheran 43 anni dopo le manifestazioni che buttarono giù l’ultimo Scià. Una rivoluzione di donne e giovani partita dal gesto di Mahsa Amini, la ragazza curda morta il 16 settembre dopo le percosse ricevute dalla polizia morale per il rifiuto di indossare correttamente l’hijab. In sua memoria il gesto di tagliarsi una ciocca di capelli, reinventato con poesia da Marilena Nardi per la copertina di fine anno di questo numero di Politica, è diventato il simbolo della resistenza in Iran, così come un bacio e lo slogna “Vita donna libertà”.

In occidente è stato subito stereotipato dallo star system che replica il gesto e lo banalizza, in Iran è un capovolgimento rispetto all’avvento della teocrazia islamica, l’imposizione di una regola, non una scelta, che, ha scritto Azar Nafisi, annulla la realtà e il corpo: «Mi sentivo evanescente, artificiale, una sensazione di irrealtà: come se tutto il mio corpo di dissolvesse». È la chiave di un sistema totalitario in cui, afferma ancora la grande scrittrice iraniana, «dominano l’uniformità e l’aderenza alle convenzioni».

Resistenza

(AP Photo/Andriy Andriyenko)

È quello che abbiamo visto, o cercato di vedere, nel cuore dell’Europa dal 24 febbraio in poi, nell’Ucraina invasa, l’evento spartiacque del nostro tempo, che equivale a una caduta del muro di Berlino al contrario. Le categorie base dell’esistenza, rimosse nell’èra della globalizzazione e del digitale nell’eterno presente, lo spazio e il tempo. Lo spazio, con i confini: da oltrepassare o da difendere, la lunga guerra di posizione. E il tempo: è il tempo lungo, il millenarismo russo, che Vladimir Putin ha utilizzato in modo abusivo per giustificare l’invasione. E con queste categorie sono tornati il sangue, il suolo, i popoli fratelli. Di nuovo, i corpi.

Sono i corpi degli ucraini, il corpo fisico dell’Ucraina, ad aver cambiato il corso della storia, ad aver bloccato l’“operazione speciale” di Putin che immaginava una guerra lampo e un’accoglienza trionfale nelle zone russofone all’inizio del conflitto. I corpi nei rifugi durante i bombardamenti, i corpi seviziati, abbandonati nelle strade di Bucha, i corpi al gelo e al buio di questo inverno, di questa notte dell’Europa. I corpi che resistono alla ricostruzione totalitaria che capovolge la storia.

I corpi riempiono la geopolitica, mettono in affanno le diplomazie internazionali. Riscrivere i confini a tavolino, dopo una guerra, è impossibile se non si comprendono i popoli. È stato uno sbaglio colossale negli ultimi trent’anni pensare che le radici e i simboli potessero essere espulsi dalla comprensione del presente, consegnati come si è detto all’idea novecentesca della storia.

I migranti

(Candida Lobes/MSF Via AP)

I corpi fanno la rivoluzione in Iran. I corpi hanno cambiato le sorti della guerra in Ucraina. I corpi sono la pietra di inciampo del mondo chiuso e recintato ipotizzato dai partiti sovranisti e nazionalisti. È un errore culturale e politico immaginare di fermare i corpi. I corpi in movimento nel Mediterraneo o nei Balcani sono i protagonisti del drammatico 2022, con i loro oggetti che parlano, da Lampedusa alla piazza della Libertà di Trieste alla scogliera di Ventimiglia, come racconta Elena Testi nel reportage che segue dalle tante frontiere italiane, nell’anno che ha visto gli sbarchi tornare a salire sopra i centomila migranti arrivati e circa 1500 morti o dispersi in mare.

Il governo della destra di Giorgia Meloni che aveva appena giurato ha provato subito a riscrivere la storia e i confini del mare, stilando la propria dichiarazione di guerra domestica contro il nemico, rappresentato dalle navi delle Ong che soccorrono e salvano i naufragi in mare, sono circa il dieci per cento del totale, ma la propaganda governativa li fa apparire come la totalità, il pull factor risuonato anche nelle aule parlamentari dalla voce del nuovo ministro dell’Interno, a sostenere che tutti i migranti che partono dalle coste libiche e tunisine sarebbero mossi dal miraggio di essere raccolti da una nave di una Ong.

Ma su questo punto, e sull’odioso neologismo dello sbarco selettivo, per cui dalle navi era stato consentito scendere solo a donne, bambini e fragili, salvo poi accorgersi che dopo settimane in mare e indicibili condizioni di partenza tutti i migranti sono fragili, il governo di Giorgia Meloni ha trovato il suo unico vero ostacolo e la polemica aperta con la Francia di Emmanuel Macron. Sono i corpi dei migranti ad aver costretto la destra italiana alla retromarcia.

Governo a destra

LaPresse

La vittoria elettorale della destra in Italia e la prima donna a Palazzo Chigi è il terzo grande fatto del 2022, insieme alla guerra in Ucraina e alla rivoluzione in Iran. Il voto del 25 settembre è stato preceduto dalla caduta del governo di Mario Draghi in una settimana di luglio, in realtà largamente anticipato dal voto di inizio gennaio per la presidenza della Repubblica.

Il premier Draghi, arrivato all’appuntamento istituzionale come dominus della politica italiana e europea, non è mai davvero entrato in corsa, in un sistema politico composto di partiti inesistenti e di leadership vacillanti, ma unito nello sbarrare la strada del Quirinale all’ex banchiere centrale, come ha raccontato Lucia Annunziata nella ricostruzione di quelle giornate (L’Inquilino, Feltrinelli). Il governo Draghi si è fermato lì, il resto appartiene al rito cannibale con cui la politica italiana usa divorare i premier e sé stessa. Alla caduta di Draghi è seguita una paradossale campagna elettorale, con Giorgia Meloni messa in condizione semplicemente di aspettare la data del voto per certificare una vittoria già avvenuta per abbandono del campo da parte dell’avversario.

Crisi a sinistra

LaPresse

L’anno si chiude con il Pd che crolla nei sondaggi, alla vigilia di un congresso straordinario perché in discussione non c’è solo la segreteria ma la natura del partito, la sua tenuta come ossatura, infrastruttura e non soltanto guida del centrosinistra negli ultimi venti anni, alle prese con la questione morale rilanciata dalla corruzione nel Parlamento europeo, il Qatargate, che in realtà è una gigantesca questione politica, svela l’assenza e il vuoto della politica. La natura per chi fa politica è qualcosa di impalpabile, è una radice, è una risorsa e insieme è una condanna. L’assenza di natura, di una visione, di una lettura della realtà, può nel breve periodo rendere più agili i cambi di fronte e di pelle, come racconta Marco Follini nel ritratto di Giuseppe Conte. Ma per durare serve altro.

La voragine spalancata dalla crisi del principale partito della sinistra italiana non inghiotte soltanto la politica, è più profonda, coinvolge la presenza sociale, il ritrarsi della rappresentanza laddove ce ne sarebbe più bisogno, tra le famiglie in difficoltà, i morti sul lavoro, i ragazzi che si arrendono e mollano la scuola, i servizi sanitari debilitati, i territori e le periferie disabitate. E riguarda il venir meno dei luoghi del dibattito, materiali e immateriali, fisici e virtuali, i luoghi culturali, artistici, editoriali in cui si esprime una forza, una presenza, una capacità di incidere.

Di tutto questo resta un passato pesante, che dà modo agli addetti alla cultura, come li chiamava Franco Battiato, oggi espressione della destra famelica di spazi, di presentarsi come i liquidatori di una egemonia che non c’è più da tempo. Senza questi luoghi, i luoghi della presenza sociale e i luoghi in cui si elabora un pensiero, restano le scorciatoie. Le icone effimere che riempiono vuoti.

La ricostruzione di una presenza passa da questi luoghi, di pensiero, di aggregazione. Non saranno mai più i vecchi partiti. Ma serviranno spazi in cui ritrovare il diritto all’apparizione, in cui i movimenti si fanno istituzione, in cui i corpi diventano popolo, popoli, i popoli che fanno la storia.

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