Quando, il 17 dicembre 2011, il ­­dittatore nordcoreano Kim Jong Il morì improvvisamente, molti furono coloro che ritennero che ciò avrebbe rappresentato il punto di non ritorno per il “regno eremita”, che, presumibilmente, avrebbe fatto molta fatica a riprendersi da tale evento. Il successore designato – il giovane terzogenito Kim Jong Un – aveva del resto fatto la sua comparsa in pubblico solo di recente e non sembrava in alcun modo preparato a raccogliere l’eredità del padre, soprattutto a causa della palese inesperienza in un ruolo di grande responsabilità.

L’assenza di dimestichezza del giovane Kim con il complesso sistema che regola le dinamiche relazionali del “cerchio interno” del regime e la necessità di acquisire la fiducia degli attori più significativi, tra i quali sicuramente i vertici delle forze armate, lasciava presagire un futuro molto incerto per la Corea del Nord.

Nell’opinione di altri commentatori, invece, il trasferimento di potere nelle mani di un giovane leader, per di più avvezzo allo stile di vita occidentale, avendo studiato in una esclusiva scuola svizzera e fan dichiarato del basket americano, avrebbe sicuramente migliorato le condizioni di vita della popolazione nordcoreana e probabilmente condotto a un confronto sull’arsenale nucleare con le principali potenze internazionali.

Il bilancio

Molta acqua è passata sotto i ponti da quel momento, e le previsioni di un subitaneo crollo del regime nordcoreano, così come quelle di un ipotetico cambiamento, si sono puntualmente rivelate affrettate e poco solide.

Del resto, non era neanche particolarmente difficile supporre che la mera esposizione allo stile di vita occidentale non sarebbe stata sufficiente per convincere automaticamente il neoleader della valenza della democrazia; in fondo, era perfettamente chiaro nella testa di Kim Jong Un che tutto ruotasse attorno alla necessità di serbare in modo indefinito il predominio della sua famiglia all’interno del paese.

Al giro di boa del primo decennio in sella al paese, comunque, Kim si trova a doversi confrontare con le massicce sanzioni internazionali, con i disastri naturali che rendono difficilissime le condizioni di vita della popolazione e con le sfide poste dalla pandemia, che il regime ha costantemente spergiurato non abbia neanche sfiorato la Corea del Nord.

L’anno che sta per volgere al termine si era aperto con l’appropriazione da parte di Kim Jong Un del titolo di Segretario generale del Partito dei lavoratori – ereditato dal padre – ma si sta chiudendo con le preoccupazioni relative alla mancanza di beni di prima necessità, alla pandemia e, soprattutto, alla precaria situazione economica del paese, mentre il ritorno a un confronto con la comunità internazionale sul nucleare appare come una possibilità sempre più remota.

La successione

La scalata formale al potere da parte di Kim Jong Un si aprì tredici giorni dopo la scomparsa del padre, allorché il giovane venne dichiarato comandante supremo delle forze armate nordcoreane, all’incirca un anno dopo essere stato frettolosamente presentato pubblicamente in qualità di successore designato nel corso di una parata militare.

La sua apparizione confermò che egli era stato preferito, per ragioni diverse, ai due fratelli più anziani, in un inusuale disconoscimento della procedura di successione al potere, che avrebbe dovuto essere appannaggio del figlio maggiore.

La strategia immediatamente adottata da Kim non si discostò troppo dalla linea seguita precedentemente dal padre: in buona sostanza, se da un lato furono effettuate delle concessioni alle élite che sostenevano incondizionatamente il trasferimento di potere – aiutando così il neoleader nel processo di acquisizione di legittimità – dall’altro si decise di sradicare, anche facendo ricorso alla violenza, qualunque possibile minaccia.

Fu proprio in base a questa presa di posizione che, nel 2013, Kim ordinò l’esecuzione dello zio – uno degli uomini più influenti all’interno della leadership – il cui potere personale e le cui macchinazioni sembra avessero destato non pochi sospetti; la determinazione relativa al mantenimento del potere, insomma, non poneva limiti neanche nei confronti dei propri familiari.

Ciò fu confermato alcuni anni dopo, nel 2017, quando proprio il fratellastro del leader in carica fu assassinato all’aeroporto di Kuala Lumpur facendogli inalare il gas nervino VX, una delle armi chimiche più letali in assoluto. Pochi credettero che tale operazione potesse aver avuto luogo senza la preventiva approvazione di Kim Jong Un.

Potenza nucleare

(AP Photo/Ahn Young-joon)

Solo dopo aver raggiunto un alto livello di consolidamento interno Kim, nel 2016, svelò i contenuti della politica del byongjin, vale a dire della sua personale visione – che in verità ricalcava i precetti del nonno – secondo cui le riforme economiche avrebbero dovuto marciare di pari passo con l’acquisizione di un reale status di potenza nucleare.

Se delle promesse relative alle riforme economiche non v’è traccia, la conquista principale di Kim Jong Un è stata, senza ombra di dubbio, l’aver condotto il proprio paese alla condizione di potenza nucleare. I quattro test atomici effettuati dal 2013 al 2017 – due dei quali presumibilmente compiuti usando ordigni termonucleari – hanno senza dubbio testimoniato gli enormi passi in avanti fatti registrare dal regime in ambito atomico.

Ciò, peraltro, deve essere sommato agli sviluppi degni di nota compiuti in ambito missilistico, che hanno consentito alla Corea del Nord di mettere nel mirino lo stesso territorio degli Stati Uniti, ormai potenzialmente raggiungibile dai missili balistici intercontinentali. Qualora questi dovessero essere mai equipaggiati con una testata nucleare miniaturizzata il quadro della pericolosità della Corea del Nord sarebbe completo. 

Gli incontri con Trump

Sul fronte estero non si può non fare menzione dei due incontri (a Singapore nel 2018 e ad Hanoi nel 2019) che Kim – dopo un lungo iato di totale assenza di rapporti internazionali – ha avuto con l’ex-presidente Trump, a cui va aggiunto l’incontro “estemporaneo” avvenuto alla fine di giugno del 2019 presso la zona demilitarizzata che divide le due Coree.

Se il summit di Singapore è servito in qualche modo a legittimare Kim in qualità di statista, rintracciando peraltro alcuni spazi di collaborazione volti alla “denuclearizzazione” della penisola, quello di Hanoi ha sancito l’allontanamento – probabilmente definitivo – tra le parti, dopo che i due leader non riuscirono ad accordarsi sulle modalità attraverso cui la Corea del Nord sarebbe stata premiata per la rinuncia al proprio programma nucleare.

Allo stato attuale, infatti, di rinunce di tal fatta non v’è traccia e anzi, proprio di recente, le immagini satellitari hanno svelato come il regime continui a produrre plutonio arricchito presso il complesso nucleare di Yongbyon.

Nei dieci anni al comando del regime nordcoreano Kim è riuscito a trasformare il proprio paese in una potenza nucleare conclamata, a dispetto delle fortissime sanzioni economiche a cui la nazione è assoggettata dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, distinguendosi come fonte di perenne frustrazione geopolitica per le amministrazioni statunitense che si sono succedute negli ultimi decenni.

La sfida della pandemia

Al momento, comunque, la sua sfida più grande è quella relativa al reale impatto che il Covid-19 sta avendo nel paese, e a causa del quale il regime potrebbe subire dei colpi non immediatamente visibili.

Probabilmente per questo motivo Kim sta sforzandosi di rafforzare la propria immagine pubblica, facendosi spesso ritrarre con una selva di bambini inneggianti o in compagnia di normali cittadini; la raffigurazione di leader attento al benessere e alle necessità della propria popolazione risulta assolutamente centrale, specialmente in un frangente in cui – oltre alle ristrettezze determinate dalle sanzioni – l’economia del paese sembra essere stata duramente colpita dalla pandemia, che ha costretto Pyongyang a chiudere i suoi confini limitando persino i vitali contatti commerciali con la Cina.

Si tratta comunque innegabilmente di un regime resiliente e aduso a far fronte alle sfide più dure; è molto più plausibile pensare alla possibilità che Kim Jong Un giunga a celebrare un secondo decennio a capo del regime nordcoreano piuttosto che immaginarlo sconfitto dal Covid o da un sistema economico al collasso.

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