I partecipanti in piazza contro il regime del Pcc lamentano la presenza di uomini cinesi che, dopo aver individuato chi manifesta, minacciano i famigliari rimasti in patria
Nella mattina del 10 marzo si è svolta a Roma a Piazza dell’Esquilino, dietro la stazione Termini, la manifestazione della comunità tibetana in ricordo delle proteste che avvennero lo stesso giorno del 1959 contro l’occupazione cinese e la successiva repressione per mano dell’Esercito di liberazione popolare del Partito comunista.
All’appuntamento annuale hanno risposto diverse organizzazioni composte da persone di origine tibetana presenti da tempo in Italia.
La paura di protestare
Arrivando sul posto, si potevano vedere i colori accesi delle bandiere del Tibet sventolare al centro della piazza assolata, sentire gli slogan urlati attraverso il megafono, ma poche persone presenti.
«Non tutti si sentivano di poter venire alla manifestazione, molti hanno ancora famiglia in Tibet», dice a Icij Nyima Dhondup, vicepresidente della Comunità tibetana in Italia. E aggiunge «Hanno paura delle ripercussioni che potrebbero avere i loro cari se il governo cinese venisse a sapere della loro presenza in piazza».
Solitamente, attorno al presidio che si riunisce ogni anno, si vedono girare delle persone di origine cinese che, cellulari alla mano, scattano foto al gruppo, così da identificare i partecipanti. Se le persone nelle immagini hanno ancora famiglie in Cina, è possibile che le autorità cinesi si presentino alle porte dei parenti e minaccino ripercussioni, ad esempio trattenendoli in prigione, bloccando i conti corrente dei famigliari o bloccando sostegni e contributi, per mettere pressione ai membri all’estero e bloccare le attività ritenute sovversive dal Partito.
È la situazione in cui si trova Gyatso, nome di fantasia usato per proteggere la sua identità. Arrivato in Italia oltre dieci anni fa, ha ottenuto lo status di rifugiato ed è riuscito a costruirsi una nuova vita, ma ha ancora i parenti in Tibet.
«Non posso partecipare a nessun evento pubblico, ho paura che possa succedere qualcosa alla mia famiglia», dice. «Riesco solo a parlarci brevemente al telefono, ma anche in quel caso posso solo chiedere come stanno, mai parlare di politica, nel caso ci stiano intercettando».
Il metodo
La pratica viene descritta dalle stesse autorità cinesi come «comprimere lo spazio», una serie di azioni messe in atto dai dirigenti del Partito per «far sentire le persone sotto pressione, incapaci di sviluppare le proprie capacità e ridurre l’impatto delle loro attività». È ciò che si legge in un documento ufficiale del 2013 del governo cinese trapelato attraverso il lavoro di Adrian Zenz, direttore di Chinese Studies presso la Victims of Communism Memorial Foundation a Washington, che descrive le tattiche da usare per reprimere le voci dissidenti.
Questa situazione rappresenta una condizione ormai comune che si sta verificando sia in Asia che in Europa e fa parte della nuova strategia del Partito comunista cinese, volta a reprimere tutte le forme di dissenso politico che potrebbero sovvertire il potere dello stato e l’immagine che la Cina vuole dare di se stessa al mondo.
I casi sono aumentati a partire dal 2013, anno in cui Xi Jinping è salito al potere e ha sottolineato l’importanza di preservare la sicurezza nazionale da ogni minaccia, interna ed esterna. Secondo la nuova indagine svolta da Icij, in almeno sette casi tra Europa e Asia i manifestanti in proteste avvenute durante le visite del presidente Xi Jinping sono stati bersaglio di tattiche repressive.
In tutti i casi esaminati, le forze dell’ordine locali hanno violato i diritti di decine di manifestanti al solo fine di schermare il leader cinese dall’espressione del dissenso. In alcuni casi, le forze dell’ordine hanno trattenuto o arrestato i manifestanti dopo azioni pacifiche: il solo fatto di aver mostrato striscioni o accessori di vestiario con scritte come “Free Tibet” e “Abbasso la dittatura” è costato alle persone direttamente interessate un periodo di detenzione.
Situazioni del genere si sono verificate in Francia, dove alcuni attivisti tibetani sono stati trattenuti per diverse ore dalla polizia salvo poi essere rilasciati una volta passata la colonna di veicoli che contornava la vettura di Xi Jinping.
Mentre in paesi come India e Nepal le forze dell’ordine hanno arrestato preventivamente le persone che avevano chiesto il permesso per manifestare durante l’arrivo del presidente cinese.
Visite blindate di Xi
A conti fatti, le sette visite di Xi si sono concluse con episodi di violazione dei diritti dei manifestanti e della libertà di riunione e di espressione secondo gli standard internazionali. Secondo Liu Pengyu, portavoce dell’ambasciata cinese negli Stati Uniti, «l’accusa di repressione transnazionale è priva di fondamento e fabbricata da alcuni paesi per diffamare la Cina».
Di tutt’altro avviso è Yaqiu Wang, direttrice delle ricerche sulla Cina per l’organizzazione Freedom House: «La capacità della Cina di arruolare altri governi nella sua campagna di repressione globale è ineguagliata, come dimostrato dagli episodi di detenzione delle voci critiche».
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