Israele vive momenti drammatici, segnati da una protesta di massa e da una lacerazione interna senza precedenti, che hanno indotto Benjamin Netanyahu a sospendere l’iter legislativo della controversa misura in materia giudiziaria.

Di fronte alla crescente opposizione nel paese, sfociata in un paralizzante sciopero generale; alle crepe che si sono aperte nella maggioranza governativa con la cacciata del ministro della Difesa Yoav Galant, ma anche nelle istituzioni della sicurezza, nelle forze armate e tra i riservisti; all’appello a ritirare il provvedimento da parte del presidente Isaac Herzog, nonché alla non troppo moral suasion degli Stati Uniti e dell’influente diaspora americana, preoccupati per i riverberi che la crisi interna rischia di proiettare anche all’esterno, il premier fa, per ora, un passo indietro. Uscendo comunque indebolito da una prova di forza dagli esiti inimmaginabili dopo le vittoriose elezioni dello scorso autunno. Consultazioni che, dopo un periodo di instabilità e ripetuti, quanto mai risolutivi, ricorsi alle urne imposti da un sistema elettorale proporzionale “puro” che induce a frammentate e instabili coalizioni di necessità, hanno consegnato la maggioranza assoluta a uno schieramento mai così a destra.

Likud e destra estrema

Certo, da Menachem Begin ad Ariel Sharon, passando per Yitzhak Shamir e dal primo governo Netanyahu negli anni Novanta, il rapporto tra il Likud e la destra estrema – quella che nasce dal filone del sionismo nazionalreligioso e poi si incarna nelle varie sigle dei movimenti dei coloni, fedeli a quella  “teologia della Terra” che rivendica il pieno possesso dei territori da parte di Eretz Israel, la Grande Israele biblica, comprendenti «Giudea e Samaria», occupati dopo la Guerra dei sei giorni – è sempre stato costante.

Nazionalisti secolari e nazionalreligiosi convergevano pragmaticamente sulla questione dei territori: per i primi controllarli significava garantire la sicurezza di Israele, per i secondi realizzare l’agognata colonizzazione. Ma, almeno sino a qualche anno fa, il bastone del comando era saldamente nelle mani del Likud, che consentiva alla destra nazionalreligiosa di perseguire i propri obiettivi – la politica degli insediamenti si è molto estesa negli ultimi quarantanni – ma non sino al punto da mettere in discussione scelte ritenute strategiche: come dimostra il ritiro da Gaza voluto da Sharon nonostante l’opposizione del movimento dei coloni.

Nel tempo, però,  i mutamenti sociali e demografici intervenuti nella società israeliana anche per effetto dei processi migratori favoriti dalla “legge del ritorno”, hanno eroso il radicamento delle formazioni politiche fondatrici di Israele: non solo il partito laburista ma anche quello nazionalista secolare, consentendo ai partiti religiosi, sia quelli ultraortodossi come Shas o Agudat Ysrael, che a quello nazionalreligioso, di aumentare il loro peso, divenendo decisivi nella nascita degli esecutivi.

Le elezioni del 2022

Nelle elezioni del 2022 i religiosi hanno ottenuto un quarto dei seggi: in particolare il Partito nazionalreligioso, erede dell’antico Mafdal e ormai formazione di riferimento dei coloni, è diventato il terzo partito. Nella sua lista si è presentato anche Otzma Yehudit, Potere ebraico – filiazione ideologica del partito Kach del rabbino Meir Kahane, messo fuori legge nel 1994 per le sue posizioni estreme e razziste, fautore della tesi dell’impossibilità dell’esistenza di uno “stato ebraico democratico” poiché legge religiosa e legge positiva, volontà divina e sovranità popolare, non possono coesistere – guidato da Ben Gvir. 

Otzma Yehudit guarda con favore all’annessione dei territori dal «Giordano al mare», alla fine degli accordi di Oslo, alla sovranità israeliana sulla Spianata delle moschee in quanto antico sito del Monte del tempio. Gvir, ministro della Sicurezza nazionale, ha come obiettivo condizionare Netanyahu ottenendo concessioni in materia di insediamenti e rapporti con i palestinesi. La messa in riga della corte Suprema, che spesso è un ostacolo a quella politica, è un passaggio fondamentale in questa strategia.

Non è casuale che sia Gvir e il suo partito, che il ministro delle Finanze e leader del Partito nazionalreligioso Bezalel Smotrich, abbiano minacciato di uscire dal governo nel caso in cui il contestato provvedimento sulla giustizia venisse ritirato. Se per Netanyahu si tratta di limitare la possibilità della corte Suprema di intervenire sulle decisioni governative e, come sospettano molti, di evitare il vaglio di quella corte su eventuali leggi ad personam destinate a tutelarlo in sede giudiziaria, per Gvir e Smotrich ciò che conta è impedire che la corte  metta al bando misure  in materia di insediamenti e di tutela del carattere religioso dello stato di Israele.

Con la “riforma”, il governo potrebbe, a maggioranza semplice, rovesciare le decisioni della corte Suprema, sottrarle la funzione di controllo in materia di compatibilità tra legislazione ordinaria e leggi fondamentali – Israele non ha una Costituzione formale, alla fondazione dello stato proprio i religiosi si sono opposti alla sua adozione, sostenendo che la sola costituzione fosse la Torah: un vuoto istituzionale colmato dal varo di una serie di leggi fondamentali delle quali la corte è attenta custode – nominare buona parte dei giudici che la compongono, mettendo in discussione in principio che vede quest’ultimi scelti da un organismo indipendente composto da politici e tecnici che hanno già fatto parte della corte.

Gvir e Smotrich

Se Gvir è cresciuto nell’ombra di Kahane, Smotrich, che rivendica il diritto della maggioranza a governare e a non farsi scippare dalla piazza il mandato elettorale, si è formato alla scuola di Mercaz HaRav del rabbino Abraham Isaac Kook, il padre spirituale della “teologia della terra” e del messianismo attivistico della redenzione incentrato sul possesso esclusivo di quella stesso terraneo “dono divino”. 

Netanyahu si trova così stretto nella tenaglia costituita da un movimento dalla capacità mobilitante mai vista e dai suoi alleati estremi, decisi a incassare il frutto promesso della vittoria elettorale. Il premier israeliano esce comunque indebolito da una prova di forza della quale non aveva misurato le conseguenze.

È stata la congiunzione tra i nuovi assetti istituzionali ipotizzati e i nuovi equilibri politici esistenti – che hanno catapultato in posizione chiave nel sistema una destra religiosa radicale, portatrice di istanze capaci di mutare gli storici caratteri dello stato di Israele – a sollevare l’onda della protesta.

È parso chiaro a molti che la combinazione dei due elementi rischia di produrre un corto circuito devastante, mettendo alla prova la democrazia israeliana. La mobilitazione è stata così diffusa e trasversale, perché  larga parte della società israeliana ha avvertito che in gioco non vi era solo il destino di una legge che, incidendo sull’equilibrio dei poteri, in particolare su quelli tra esecutivo e giudiziario, sposta decisamente a favore del primo il baricentro del sistema, ma la  stessa natura della democrazia israeliana. Il timore è che questa forzatura possa far precipitare Israele nel sempre più vasto gruppo delle “democrazie illiberali”.

Netanyahu ha convinto Gvir ad accettare il congelamento del provvedimento. Per evitare la caduta del suo governo il premier sembra avergli promesso l’istituzione di una Guardia nazionale posta sotto il controllo del suo ministero. Scelta, che porterebbe il movimento nazionalreligioso nei gangli più delicati della sicurezza dello stato, destinata ad alimentare nuove tensioni.

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