Tra i tanti temi emersi nella Giornata della memoria da poco trascorsa, non mi pare abbia trovato spazio la lettura revisionista della Shoah in chiave nazionalista in atto in molti paesi europei.

Come già ci è capitato di scrivere su queste pagine, è in corso da tempo un processo revisionistico in cui le nazioni europee fanno a gara a deresponsabilizzarsi per legittimare una retorica nazionalista, da sempre considerata causa della Shoah per la rappresentazione dell’ebreo come straniero pronto a sabotare la nazione dall’interno.

L’esempio più celebre di questo tentativo è, probabilmente, l’Holocaust memorial center di Budapest, guarda caso ideato nel 2010, anno d’origine del progetto di democrazia illiberale di Viktor Orbàn, per poi essere inaugurato nel 2019.

Una ricostruzione storica che mira a far ricadere la responsabilità dell’eccidio nazista sull’occupazione tedesca, omettendo quella partecipazione attiva del popolo ungherese di cui gli stessi nazisti si stupirono e che portò al massacro di circa 440mila ebrei. Schema, sia chiaro, avvenuto in tutta Europa, non certo solo in Ungheria.

Dobbiamo ora constatare quanto questa retorica sia avallata dall’attuale governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, che ha recentemente inviato il suo ministro per le relazioni con la diaspora Amichai Chikli ad incontrare a Budapest Miklos Soltesz, ministro ungherese per le chiese, le minoranze e gli affari civili. All’incontro ha partecipato anche il rabbino capo d’Ungheria Shlomo Koves, da sempre filo-Orban.

Richieste

Dopo aver adeguatamente ringraziato il governo ungherese per il suo «incrollabile sostegno ad Israele», Chikli ha chiesto esplicitamente all’Ungheria, che non ha mai mancato di porre il veto nemmeno sui più delicati dossier, di fermare i finanziamenti europei alle associazioni palestinesi.

Il tutto corredato dal pur vero argomento che l’antisemitismo di oggi passa attraverso l’antisionismo. Sorvolando, però, sugli attentati ad Halle, con 70 persone asserragliate in una sinagoga presa d’assalto mentre fuori i colpi di mitra di Stephan Balliet ne uccidevano altre due, o, l’anno prima, alla sinagoga Tree of life di Pittsburgh, entrambi riconducibili a quella galassia suprematista e ultranazionalista che indica nell’ebreo la quinta colonna interna allo stato, mettendolo nello stesso calderone del musulmano perché entrambi stranieri venuti a deturpare l’occidente.

Non si tratta del solito scambio, tu appoggi Israele io chiudo entrambi gli occhi sulla tua retorica antisemita corollario del nazionalismo. In palio c’è il costituirsi di una logica neo-imperiale che immagina le realtà nazionali forgiate sull’antica logica per cui alle minoranze è garantita la preservazione della propria identità, ma al prezzo di accettare l’idea di un ceppo dominante, magiaro od ebraico che sia.

E, va detto come monito per chiunque ricopra quella carica anche in Italia, fa tristezza vedere un rabbino considerare la propria identità talmente debole da preferire il ritorno nel ghetto al rischio assimilazione della società moderna multiculturale.

Non è, dunque, solo moneta di scambio, ma la condivisione di un progetto comune che mira a regredire rispetto al modello emancipatorio su cui si sono costruite le società post-rivoluzionarie. In realtà questa complicità fra governi Netanyahu e leader nazionalisti non nasce oggi.

Già lo Yad VaShem rifiutò la parte della lavatrice dei panni sporchi di tutti gli autocrati portati da Bibi davanti alla fiamma perenne in ricordo delle vittime della Shoah.

L’equilibrismo ha già mostrato le sue contraddizioni con la legge polacca che, a proposito di revisionismo storico, impedisce la definizione di «campi polacchi» per riferirsi ad Auschwitz e agli altri campi nazisti sul proprio territorio.

La cosa provocò una rottura fra i due paesi perché, si sa, i nazionalismi sono l’un contro l’altro armati e i nodi alla fine vengono al pettine. Ah, è sempre di questi giorni la notizia dell’intenzione del governo israeliano di ripristinare le piene relazioni diplomatiche con Varsavia.

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