Mentre proseguono le trattative in Qatar per arrivare al cessate il fuoco, il premier israeliano viene ricevuto nello studio ovale. Venerdì sera ha definito «irricevibili» le richieste di Hamas. Ma il presidente americano, dopo averlo appoggiato nell’offensiva contro l’Iran, si aspetta un atteggiamento più conciliante
Domenica 6 luglio una squadra di negoziatori israeliani è partita per il Qatar per partecipare a un ennesimo round di trattative e concordare i termini del terzo cessate il fuoco dall’inizio della guerra a Gaza.
Sullo sfondo c’è il comunicato perentorio dell’ufficio del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. «Le modifiche che Hamas intende apportare alla proposta del Qatar ci sono state comunicate ieri (venerdì ndr) sera», recita il testo diffuso a motzei shabbat, cioè sabato al termine della giornata di riposo ebraico. «E sono inaccettabili per Israele».
Netanyahu da Trump
Ma lunedì, a Washington, Netanyahu è atteso da un Donald Trump che si aspetta flessibilità da parte dello stato ebraico, tanto più dopo il clamoroso intervento americano nella guerra con l’Iran. Il commentatore israeliano Nahum Barnea ha messo l’accento su questo aspetto nel proprio editoriale sul quotidiano Yedioth Ahronoth.
«Nonostante il nostro intenso desiderio di legge marziale a Gaza, di coloni che popolino le dune di Tel a-Sultan e Beit Lahia, di giovani delle colline che diventino ragazzi della spiaggia», ha scritto alludendo ironico ai giovani coloni violenti della Cisgiordania, «non possiamo essere ingrati con il presidente che ci ha dato Fordow».
Secondo commentatori contigui al Likud di Bibi, alcuni esponenti di spicco della coalizione chiedono al premier di archiviare il conflitto a Gaza per evitare divenga una guerra di logoramento, cosa che di fatto è già da tempo diventata. È evidente che in Israele tiri aria d’accordo, come conferma anche la ritrovata centralità politica delle famiglie degli ostaggi. Ma forse anche per questo, in un interminabile gioco delle parti, Hamas pensa di avere maggiore margine per ottenere concessioni.
La proposta
Secondo la proposta attualmente sul tavolo dieci ostaggi vivi e 18 corpi di israeliani uccisi verrebbero restituiti in cinque tranche nel corso di una tregua di 60 giorni. Durante questi due mesi continuerebbero gli sforzi negoziali per trovare un accordo sul resto degli ostaggi, sulla governance di Gaza dopo la guerra, e per un cessate il fuoco di natura permanente.
Non conosciamo il contenuto delle obiezioni di Hamas che Israele ha bollato come irricevibili. Ma secondo il sito americano Axios potrebbero riguardare una richiesta da parte del movimento islamista di eliminare la Gaza Humanitarian Foundation, la controversa fondazione umanitaria voluta da Israele e dagli alleati statunitensi per cercare di escludere Hamas dalla distribuzione degli aiuti nella Striscia. Le Nazioni unite, in altre parole, dovrebbero tornare ad essere l’unico attore in campo.
La seconda obiezione riguarderebbe invece il ridispiegamento dell’esercito israeliano, cioè in quale misura i soldati dello stato ebraico si ritirerebbero da Gaza. La richiesta sarebbe quella di tornare quantomeno alle posizioni del secondo cessate il fuoco, cioè prima che Netanyahu ordinasse una nuova offensiva a sorpresa, lo scorso 18 marzo. Hamas inoltre insisterebbe su garanzie americane sul fatto che Israele non ricominci ad attaccare non appena sia terminata la prima fase dell’accordo, cioè dopo i 60 giorni in cui dovrebbero essere rilasciati gli ostaggi.
L’ipotesi di un “emirato”
Nel frattempo, tramite il Wall Street Journal il ministro dell’Economia ed ex sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, ha pubblicizzato un’improbabile iniziativa di pace concepita in tandem con una serie di capi-clan palestinesi della zona di Hebron.
L’idea è quella di esautorare l’Autorità Palestinese dalla zona e sostituirla con un “emirato” che aderirebbe agli Accordi di Abramo, accodandosi al processo di normalizzazione iniziato nel 2020 con gli accordi fra Israele e le petromonarchie del Golfo.
Barkat ha fatto sapere di essere contrario a una soluzione a due stati, a uno stato, ma non a una cosiddetta «soluzione degli emirati», che si configurerebbero come isole di autonomia palestinese guidate da figure autoritarie amiche di Israele.
Di fatto, a partire dall’accordo proposto da Sheikh Wadee’ al-Jaabari e degli altri quattro sceicchi di spicco di Hebron, Israele siglerebbe una miriade di mini-intese sfruttando le affiliazioni su base tribale, che giocano un ruolo molto importante nella società palestinese.
Gli sceicchi o capi clan rinuncerebbero a qualsiasi rivendicazione nazionale e territoriale e garantirebbero l’estraneità a forme di militanza e terrorismo di tutti i propri affiliati. In cambio, per loro fioccherebbero permessi di lavoro in Israele, collegamenti migliori alle infrastrutture israeliane, prebende e forme di cooperazione economica. Si tratta di una riedizione del modello della pace economica, già popolare nelle fila della destra israeliana e sviluppato verso la fine della prima presidenza Trump all’interno del cosiddetto “Accordo del Secolo”. Del quale alla fine non si è fatto nulla.
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