Una valanga d’ignominia che si abbatte sulla National Football League (NFL) statunitense. E a determinarla è un altro caso di mix fra razzismo, sessismo e omofobia. Si tratta di quello che ha portato alle dimissioni di Jon David Gruden dalla carica di allenatore capo dei Las Vegas Raiders. Un caso che ha inferto uno fra i colpi più pesanti di sempre all’immagine della lega professionistica del football e dell’intero sport Usa.

Perché il protagonista di questo scivolone è stato fino a qualche giorno fa un personaggio di spessore assoluto nello sport nazionale. Un allenatore carismatico, stimato commentatore televisivo, uomo di riconosciute doti manageriali che è stato capace di dimostrare anche al di fuori della dimensione di campo.

Eppure nemmeno un soggetto di questo spessore ha saputo mettersi al riparo dalla perniciosa epidemia sociale di pregiudizio tossico, quello che orienta verso comportamenti pubblici e soprattutto privati caratterizzati dalla peggiore predisposizione al disprezzo. Che si mette in mostra a tutto tondo quando c’è da intrattenere rapporti confidenziali, quelli nel corso dei quali si ritiene di poter esprimersi al peggio in termini di linguaggio e stereotipi negativi.

Così è stato nel caso di Jon Gruden, i cui scambi di messaggi in posta elettronica durati per circa un decennio sono stati svelati dal New York Times. Ciò che ha portato a snudare un panorama abbastanza squallido, che purtroppo non si ferma al caso personale. Tanto da spingere un commentatore del quotidiano newyorchese, Kurt Streeter, a suggerire di risignificare l’acronimo N.F.L.: Neanderthal Football League.

Le parole sul rappresentante (nero) dei giocatori

Alcune fra le mail più imbarazzanti sono quelle scambiate nel 2011 con Bruce Allen, che all’epoca era il presidente dei Washington Football Team, la franchigia che fino al 2020 si chiamava Redskins ma poi ha cambiato nome perché il riferimento ai nativi d’America era ormai diventato pesantemente pregiudizievole nei giorni del Black Lives Matter. In quelle mail Jon Gruden si lasciava andare a commenti carichi di pregiudizio nei confronti di DeMaurice Smith, direttore esecutivo dell’associazione dei giocatori professionisti NFL.

Oltre a essere un dirigente molto capace (è stato appena confermato per il quinto mandato a capo dell’associazione), Smith è generalmente molto stimato dalla dirigenza della lega professionistica e dai proprietari delle franchigie. Che fra i tanti meriti gli riconoscono di avere lavorato in modo costruttivo per traghettare il campionato fuori dall'emergenza da pandemia e farlo riprendere nel modo più sicuro e celere possibile. Smith è anche un uomo di pelle nera e ciò è stata ragione sufficiente, dal punto di vista di Gruden, per caricare di motivi razzisti la disistima nei suoi confronti.

Inoltre, lo scambio di messaggi con Allen e su Smith è soltanto parte della sequela di bassezze contenute in quelle mail. Ve ne sono altre colme di riferimenti sessisti e omofobi, praticamente il campionario completo dei peggiori pregiudizi. Dopo avere rassegnato le dimissioni da capo allenatore dei Las Vegas Raiders, Gruden ha provato ad alleggerire la propria posizione tirando in ballo il solito argomento: lui non è razzista, quelle mail vanno contestualizzate e in ogni caso si trattava di messaggi privati. Giustificazioni che nulla giustificano. Tanto più che il problema del radicato pregiudizio in NFL e nello sport professionistico Usa va oltre il caso singolo.

L’impegno di facciata

La vicenda di Gruden e delle sue mail è emersa per caso. Tutto quanto è avvenuto nel corso di un’investigazione condotta dalla NFL nei confronti dei menzionati Washington Football Team, messi sotto osservazione in conseguenza di denunce su molestie sessuali ripetute. Quell’investigazione si è conclusa lo scorso luglio con una sanzione da 10 milioni di dollari nei confronti della franchigia. E mentre gli investigatori della lega mettevano le mani in quella melma, hanno trovato un altro filone tossico scoprendo le mail di Gruden.

Il quadro che ne sortisce è sconcertante. E illustra una situazione in cui il dramma degli abusi d’ogni genere (da quelli verbali a quelli fisici) è pratica quotidiana. Tutto ciò avviene a dispetto delle campagne pubbliche contro il razzismo e l’omofobia, o per la parità di genere. Una sagra di parole, di testimonial e di buoni propositi che serve a far vedere quanto lo sport professionistico Usa s’impegni nella battaglia a tutto campo contro ogni pregiudizio. Salvo continuare dietro le quinte ad alimentare la bestialità di sempre.

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