Tra i provvedimenti emanati dal presidente Donald Trump nel suo primo giorno alla Casa Bianca vi sono i due ordini esecutivi per il recesso degli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale della sanità e dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015.

Entrambe le decisioni sono destinate a produrre i loro effetti dodici mesi dopo la notifica al segretario delle Nazioni unite e si inseriscono nel contesto della crisi attuale del sistema multilaterale di cooperazione internazionale costruito nel secondo Dopoguerra.

L’Onu al centro

Secondo i suoi ideatori, l’Organizzazione delle nazioni unite avrebbe dovuto costituire il nucleo portante di questo sistema. Il suo mandato principale riguarda il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale ed è esercitato primariamente dal Consiglio di sicurezza, composto da ventiquattro stati, cinque dei quali (Stati Uniti, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) su base permanente.

Ulteriore privilegio accordato a questi cinque stati è il cosiddetto diritto di veto: con il loro voto contrario il Consiglio di sicurezza non può adottare decisioni di natura sostanziale come, ad esempio l’applicazione di sanzioni nei confronti di stati ritenuti responsabili di un atto di aggressione, violazione della pace o minaccia alla pace o il dispiegamento di contingenti militari in situazioni di crisi.

Questo privilegio spiega l’inerzia delle Nazioni unite in alcune delle più gravi crisi internazionali, come, in tempi più recenti, l’aggressione della Russia nei confronti dell’Ucraina dal febbraio 2022 o le operazioni militari israeliane a Gaza dal 7 ottobre 2023.

L’Accordo di Parigi

Tuttavia, non possono essere trascurati i risultati raggiunti in seno all’Onu in altri settori, quali la tutela dei diritti umani o per l’indipendenza degli ex territori coloniali dalle rispettive madri patrie. Nel campo della lotta ai cambiamenti climatici, sono stati conclusi accordi internazionali che hanno istituito in seno alle Nazioni unite un quadro permanente di cooperazione tra stati. All’Accordo di Parigi concluso nel 2015, l’ultimo in ordine di tempo, partecipano ben 196 stati, ciascuno dei quali è obbligato a notificare e rivedere ogni cinque anni i propri obiettivi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra.

Rispetto al regime introdotto col Protocollo di Kyoto del 1997, in base al quale i paesi sviluppati erano obbligati a ridurre le emissioni secondo parametri quantitativamente prefissati, l’Accordo di Parigi può apparire, sotto certi aspetti, meno ambizioso, in quanto le riduzioni perseguite sono definite unilateralmente dagli stati.

Tuttavia, il nuovo regime impone a tutti i partecipanti di notificare le rispettive promesse di riduzione, incluse alcune grandi economie che nel regime di Kyoto non sono soggette a obblighi di riduzione delle emissioni, come la Cina e l’India.

Questo compromesso ha facilitato l’adesione all’Accordo di Parigi degli Stati Uniti, che invece non partecipano al Protocollo del 1997, e, di conseguenza, la loro partecipazione alle Conferenze delle parti. Dal 2016, in questi consessi sono state discusse talune questioni fondamentali per la realizzazione degli obiettivi sottoscritti, come l’istituzione dei meccanismi di mercato a supporto dell’attuazione delle promesse di riduzione delle emissioni, il trasferimento di risorse finanziarie ai paesi in via di sviluppo, nonché l’istituzione di un Fondo per le perdite e i danni per fornire assistenza finanziaria ai paesi esposti agli effetti negativi derivanti dai cambiamenti climatici.

Tuttavia, i risultati raggiunti fino a questo momento appaiono limitati. Secondo un rapporto del 2023 del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente, le “promesse” di riduzione delle emissioni porteranno, entro la fine del Ventunesimo secolo, a un aumento della temperatura terrestre compreso tra i 2,5°C e i 2,9°C rispetto ai livelli preindustriali, un risultato significativamente lontano dall’obiettivo stabilito dall’Accordo di Parigi di contenere l’aumento entro 2°C, o preferibilmente 1,5°C.

Inoltre, l’esito dei negoziati in tema di aiuti finanziari ha sollevato perplessità per la limitatezza delle risorse messe a disposizione rispetto ai bisogni reali. In un contesto già difficile, la recente decisione degli Stati Uniti di recedere dall’Accordo di Parigi (peraltro adottata già a novembre 2019 sempre da Donald Trump, poi revocata a gennaio 2021 da Joe Biden) rischia di compromettere ulteriormente l’efficacia della lotta ai cambiamenti climatici. Non va infatti trascurato il forte sostegno da parte della nuova amministrazione repubblicana al settore dei combustibili fossili, in netto contrasto con la politica climatica promossa dalla precedente amministrazione democratica.

Gli “istituti specializzati”

Nel disegno tracciato nel secondo Dopoguerra non solo le Nazioni unite, ma anche altre organizzazioni internazionali universali, avrebbero dovuto costituire il motore della cooperazione internazionale. Si tratta dei cosiddetti “istituti specializzati” dell’Onu, ovvero istituzioni il cui mandato si estende settori specifici quali la sanità, la cultura, il sistema alimentare o l’economia, per citarne alcuni. Nel passato non sono mancate critiche nei confronti di queste organizzazioni.

Le motivazioni del recesso dall’Oms dello scorso gennaio riprendono in larga parte quelle già avanzate nel 2020, quando Donald Trump aveva adottato la medesima misura (poi revocata da Joe Biden all’inizio del suo mandato): gli errori commessi dall’Oms nella comunicazione e gestione della pandemia da Covid-19, l’eccessiva dipendenza dell’Organizzazione dall’influenza politica dalla Cina, l’eccessiva onerosità del contributo alla copertura delle sue spese.

Nel 2024-2025 agli Stati Uniti è chiesto di versare all’Oms più di 260 milioni di dollari, equivalente a circa il 23 per cento del budget complessivo, seguiti da Cina e Giappone rispettivamente con 175 e 92 milioni. A questo contributo si aggiungono poi i finanziamenti volontari degli Usa, che nel 2023 ammontavano a 368 milioni di dollari. Il recesso americano comporterà conseguenze significative per l’operatività dell’Oms, particolarmente attiva in ragioni svantaggiate e riconosciuta per il suo contributo contro la diffusione di gravi malattie, come per il vaiolo.

L’ostilità nei confronti del multilateralismo può manifestarsi anche in altri modi. Il recesso degli Stati Uniti dall’Organizzazione mondiale del commercio non è all’ordine del giorno, tuttavia la minaccia di nuovi dazi doganali alle importazioni da Canada, Messico e Unione europea indebolisce ulteriormente la tenuta del regime multilaterale del commercio internazionale, basato su principi di non discriminazione e liberalizzazione degli scambi.

Cooperazione tra stati

Anche in questo caso, tuttavia, già si osserva una crisi profonda della cooperazione tra stati, alimentata dalle critiche mosse al processo di globalizzazione economica a causa dei suoi iniqui effetti redistributivi, dalle guerre commerciali tra Stati Uniti e Cina, e dalle censure mosse nei confronti degli organi di soluzione delle controversie dell’Omc. 

Secondo gli Stati Uniti questi ultimi eserciterebbero una eccessiva ingerenza nella definizione delle politiche commerciali degli stati. I negoziati commerciali del cosiddetto Doha Development Round, avviati nel 2001, sono sostanzialmente falliti e il meccanismo contenzioso non è più operativo, in questo secondo caso a causa dell’ostruzionismo degli Stati Uniti che, sin dal 2018, bloccano l’elezione dei componenti dell’organo giudicante di secondo grado, l’Organo permanente di appello, di cui alcune decisioni erano state fortemente criticate già durante l’amministrazione Obama.

In definitiva, le prime decisioni adottate dal presidente Trump colpiscono duramente il multilateralismo concepito dopo la Seconda guerra mondiale e rendono ancora più difficile la ricerca, a livello internazionale, di una rinnovata volontà politica per la soluzione di una crisi già in atto.


Giovanna Adinolfi è professoressa di Diritto internazionale presso il Dipartimento di Studi internazionali, giuridici e storico-politici dell’Università degli Studi di Milano

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