Dove va l’America dopo l’espulsione dal sistema della scheggia impazzita Donald Trump, sia sui vari fronti della politica mondiale, che sul tumultuoso fronte interno? Spesso siamo portati a pensare alla politica come una mera contrapposizione, quasi da fiction, tra buoni e cattivi, Topolino contro Macchia Nera. 

La realtà è più complicata. L’aspetto “morale” più che un un fine è una mitopoiesi che serve a costruire un fine. Dinamiche da Grande Gioco (per citare il classico di Peter Hopkirk).
Le prime nomine del presidente eletto, Joe Biden (in particolare: Antony Blinken segretario di Stato; Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza nazionale; Avril Haines alle varie agenzie di intelligence, John Kerry inviato per l’ambiente, Linda Thomas-Greenfield ambasciatrice alle Nazioni unite) fanno pensare a un processo di “normalizzazione”.

«La squadra rappresenta il ritorno dell’establishment della politica di Washington. Sono tutti esperti. Ma riusciranno a superare l’era Trump? O semplicemente inaugureranno una nuova era di stagnazione della politica estera, castigata dal fallimento dei precedenti interventi militari in Iraq e Libia e delusa da un’Asia che si sta già allontanando dagli Stati Uniti? I rischi di uno scenario del genere sono molto concreti», dice Jacob Heilbrunn, direttore di National Interest, pubblicazione del think tank fondato nel 1994 da Richard Nixon, fautore di un “realismo politico” moderato.

Gli chiediamo se possiamo pensare a un ritorno al paradigma dell’internazionalismo liberale o se il ritorno del realismo è qui per restare? «Nessuno dei due: Biden tenderà ad aiutare una “lega di democrazie”, ma la sua capacità di persuadere altri paesi a seguire l’esempio Usa potrebbe essere limitata. Avendo vissuto l’era Trump, sanno che l'America è instabile. Già i repubblicani al Senato stanno liquidando i membri della politica estera di Biden come “amministratori del declino americano”e “panda-huggers”», dice Heilbrunn. 

Leadership e stanchezza

Di certo la situazione americana è paradossale. Vuole mantenere lo status di paese leader del mondo, ma allo stesso tempo sul fronte interno soffre di una stanchezza che deriva anche dalle conseguenze negative di questo ruolo. Nota Dario Fabbri, coordinatore America della rivista di geopolitica Limes: «In America le elezioni si giocano nel Midwest, la regione di chi si percepisce detentore della nazione. I cosidetti Wasp sono più tedeschi che britannici. Il dramma è che hanno sacrificato il proprio modello economico industriale. L’impero vuole che si importi massicciamente dall’esterno, il che ha penalizzato le industrie americane. A questi Trump ha promesso di ri-implementare le manifatture, che è impossibile, e inoltre aveva promesso di trasformare l’impero in nazione. Una follia. Biden è stato più concreto, promettendo un’estensione dello stato sociale. Ma anche questo è piuttosto improbabile. Cosa succede in un paese dove il ceppo dominante vive nella parte più depressa? Devi offrire loro gloria. Dimostrare di essere il numero uno al mondo. Riuscirà Biden a offrire loro gloria, in quattro anni, stando attento a dove mette i piedi?», dice Fabbri.

Chiosa Heilbrunn: «L’unica soluzione, nell’area, sono industrie nuove e più piccole. Le acciaierie sono sparite e gli stabilimenti automobilistici stanno scomparendo. Se questa primavera si verificherà un “boom di Biden”, dopo l’introduzione di nuovi vaccini, il senso di scontento diminuirà. Un’economia forte sarà la spina dorsale di una presidenza Biden». 

Consideriamo anche il problema razzismo, più o meno endemico: «La questione razziale è stata usata in questi mesi da alcuni leader politici, in particolare bianchi, per cancellare la memoria della confederazione sudista. Dunque il problema vero non sono i neri; è la memoria del Sud. In breve: i neri vengono tirati qua e là dai bianchi, purtroppo», conclude Fabbri. 

Rimane il paradosso di un paese che non vuole più essere imperialista (e promotore di guerre), ma vuole restare numero uno. Un impero. Precisa Fabbri: «L’obiettivo massimo di un impero “maturo” è non fare mai la guerra (impossibile), cioè costringere gli altri a combattere o per me o fra di loro. Non è “declino”, ma razionalizzazione.

Guerra senza guerra

Domanda ancora più paradossale: come si fa a fare la guerra (con la Cina) senza fare la guerra? Gli Usa possiedono le rotte commerciali marittime, sono, di fatto i padroni del web (invenzione americana), ma la Cina, attraverso la Via della Seta, e l’acquisizione di porti, anche in Europa, mira alla terra. «Che fai? Punti sull’aggressività o sul contenimento? Penso che si limiteranno al secondo, perché hanno i paesi limitrofi della Cina schierati con Washington. La Cina non domina l’Asia, come dice Trump. I paesi asiatici tendono a scegliere l’egemone più lontano. Esempio: gli Usa negli ultimi 4 anni hanno avvicinato l’India, che è storicamente sprezzante verso gli americani», dice Fabbri. 

Secondo Heilbrunn «Biden impiegherà sia l’hard power che il soft power, ma sarà molto più ricettivo al libero scambio con Pechino. Militarmente, continuerà a rafforzare la presenza americana in Asia. Ma non arriverà a uno scontro con Pechino. I “guerrieri freddi” a Washington continuano ad essere assetati di conflitto con la Cina, ma quest’ultima non ha le ambizioni che aveva l’Unione sovietica. Xi Jinping è un uomo, per usare la vecchia frase di Margaret Thatcher su Gorbaciov, con cui Biden potrà fare affari».

Ecco, la Russia. L’interesse geopolitico americano è tenere la Russia alla larga dall’Europa, e in particolare dalla Germania. Per Fabbri «nel rapporto con i russi gli americani sono in ritardo sulla grammatica della forza: se tu hai due nemici, come la Cina e la Russia, potenza che è in declino, ma non si arrende, ti avvicini al più debole, che è il più corruttibile, e lo metti contro l’altro». Ci sono arrivati Kissinger, Bush junior, Obama, e Trump. Gli apparati interni Usa continuano a dire no. Perché?». 

Il problema è l’Europa, che resta il continente più importante del pianeta. Se la Russia smettesse di essere il “villain” e potesse intendersi con la Germania, per gli Stati Uniti sarebbe molto difficile controllare il continente europeo, che oggi invece gestisce facilmente. Tutti i paesi europei hanno forze armate ancillari a quelle americane. In breve, secondo Fabbri: «Biden avrà parole dure per la Russia, per dimostrare che non è Trump. Poi proverà a intendersi con Mosca in funziona anti-Cina. Ma gli apparati diranno no. Perché l’Europa è troppo importante».

Secondo Heilbrunn, «la Russia è un impero in putrefazione che potrebbe portare l’Europa nella tomba con sé. Putin vorrebbe resuscitare l’influenza e il potere di Mosca, sia nell’estremo oriente che nella parte occidentale del quadrante. Per fortuna sia gli stati baltici che la Polonia sono consapevoli del pericolo. Nell’insieme, sia Biden che Putin avranno un interesse comune a concludere accordi piuttosto che impantanarsi nell’ostilità: l’Ucraina e il controllo degli armamenti offrono promesse a riguardo». 

Il ruolo della Germania

Heilbrunn ha parole di grande simpatia nei confronti della Germania: «Sarebbe meraviglioso vedere la Germania diventare un vero leader in Europa. Finora è successo solo nella sfera economica. Il mandato dell’Europa, incoraggiato dall’amministrazione Biden, sarà di aiutare a evitare nuovi flussi di profughi dalla Siria, e di controllare le ambizioni imperiali della Russia. Qui l’amministrazione Biden aiuterà a rafforzare la Nato, al contrario di Trump».

Aggiunge Heilbrunn: «La Nato acquisirà nuova importanza sotto Biden. Ma in qualche modo assomiglia davvero al Sacro Romano Impero, ma non è né sacro né romano. Ci vorrebbe uno sforzo da parte della Germania per aumentare i suoi contributi militari per trasformarla. Finora Berlino ha esitato». 

Per quanto riguarda lo scenario mediorientale, le opinioni di Fabbri e Heilbrunn in sostanza convergono. Si prospettano contrasti con la Turchia emergente: Fabbri dice: «Aspettiamoci un atteggiamento antiturco più smaccato»; per Heilbrunn le relazioni con Ankara diventeranno “more contentious”. L’ottica americana è sempre quella di contenere la potenza emergente d’area.

Ecco spiegato l’atteggiamento altalenante nei confronti dell’Iran: con Obama è arrivato  l’accordo nucleari, finché l’Iran era impegnato nella lotta al allo Stato islamico. Finito il pericolo sunnita, sono iniziati gli attacchi (vedi alla voce uccisione del generale Soleimani).

Qualche giorno fa c’è stata l’uccisione del responsabile del programma atomico iraniano, Mohsen Fakhrizadeh: «Si tratta di manovre degli apparati, avallate da Trump con lo zampino di Israele, per impedire di aprire all'Iran. Ma nei prossimi anni gli Stati Uniti ammorbidiranno con Teheran per potersi concentrare sulla Turchia», spiega Fabbri. 

Come si diceva, l’Europa è ancora la fetta di mondo intorno alla quale girano buona parte degli equilibri geopolitici. Secondo Fabbri, «la cosidetta “green revolution”, che Biden cavalcherà avvalendosi di Kerry, verrà usata per colpire la produzione industriale di Cina e Germania, quindi riguarderà da vicino anche l’Italia, legata all’industria tedesca. l’Italia, che si è subito innamorata del (pur sacrosanto) green, dovrebbe farsi qualche domanda in più. Biden non è il sindaco di una città italiana, è il capo di un impero. Noi scambiamo Biden per un uomo di sinistra, ma tra gli italiani o i francesi e Trump, Biden sceglierebbe sempre Trump, che è americano», conclude un po’ amaro Fabbri.  

L’idea, e il punto di vista della geopolitica è appunto quello dell’equilibrio tra potenze, a questo proposito Fabbri si domanda: «Vedo che il Recovery fund in Italia è considerato quasi una iniziativa neutra. Ma invece spaventa gli americani perché si chiedono: se la Germania salva l’Italia e gli altri, che cosa vuole diventare? Ma i tedeschi, che sono una delle collettività più capaci del pianeta, vogliono sfruttare il green a loro vantaggio. Hanno capito che il movimento è concepito e usato contro di loro, ma vogliono cavalcarlo. È uno degli aspetti geopolitici più interessanti del mondo a venire». 

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