Ha ottenuto luce verde la bozza del trattato internazionale sulle pandemie che a maggio prossimo verrà sottoposto per una definitiva approvazione all’Ams (Assemblea mondiale della sanità, organo legislativo dell’Oms). Il documento è costato tre anni di lunghe discussioni, incontri difficili e duri negoziati tra gli stati membri dell’organizzazione, che alla fine hanno trovato all’unanimità un punto d’incontro per progettare una sorveglianza comune, per una futura prevenzione comune, davanti a minacce che si sono rivelate comuni, collettive, globali.

Il testo è figlio dell’insegnamento tratto dall’ultima epidemia che ha falcidiato milioni nel mondo e dei ricordi ancora vivi degli anni del Covid (quelli delle scuole chiuse, degli ospedali saturi di malati presto cadaveri, di dosi di vaccini obbligatori, delle feroci disparità e disuguaglianze sanitarie).

«Il mondo ha scritto una pagina di storia a Ginevra»: il direttore generale dell’organizzazione Tedros Adhanom Ghebreyesus ha omaggiato l’«accordo generazionale» fatto in nome e per amore delle generazioni future e i paesi che «hanno dimostrato che il multilateralismo è vivo e vitale, nel nostro mondo diviso le nazioni possono ancora collaborare per trovare un terreno comune».

Alla voce prevenzione

Tre le colonne portanti per emendare il protocollo: equità, solidarietà, trasparenza per «rafforzare la prevenzione, la gestione e la risposta alle pandemie», per eliminare – o almeno far rimpicciolire – disuguaglianze strutturali nello sviluppo delle cure, soprattutto nei Paesi in via di sviluppo. L’articolo 9 impone ai governi di stabilire politiche nazionali che definiscano le condizioni di accesso negli accordi di ricerca per garantire che farmaci, terapie e vaccini siano globalmente accessibili.

Il testo parla anche di misure atte a garantire una «distribuzione geografica più equa e un rapido aumento della produzione globale di prodotti sanitari correlati alla pandemia», un «accesso più sostenibile, tempestivo ed equo a tali prodotti», «ridurre il potenziale divario tra domanda e offerta durante le emergenze pandemiche». No a vaccini obbligatori, se non sono i singoli paesi a imporli (quello rimane «diritto sovrano» degli stati).

«I leader devono investire ora nella preparazione alla pandemia e risposta alle emergenze», ha detto Helen Clark, presidente del panel indipendente per la preparazione alla pandemia: «Non possiamo permetterci un’altra pandemia, ma possiamo permetterci di prevenirla».

In settantacinque anni di storia, questa è solo la seconda volta che l’Oms riesce a trovare un comune accordo vincolante: l’ultima volta che gli stati membri hanno tutti dato il placet risale al 2003, quando fu approvato l’accordo sul controllo del tabacco.

La poltrona vuota

Il protocollo nasce per dare corpo a uno strumento che – si spera – salverà il sistema sanitario mondiale la cui resilienza è stata stressata e poi spezzata dalla guerra scoppiata nel 2020 contro un virus di cui, all’epoca, si sapeva ben poco e per non far collassare di nuovo interi sistemi sanitari nazionali come è avvenuto cinque anni fa. Ma dire che l’accordo sia collettivo non è corretto: gli assenti sono troppo grandi per non essere notati.

Al tavolo si nota la ciclopica mancanza del paese che solo fino a qualche mese fa rimaneva tra i maggiori finanziatori dell’Oms, gli Stati Uniti. Quelli di Donald Trump: da quando il repubblicano si è insediato a gennaio scorso, hanno abbandonato l’Oms con una scia di conseguenze (non solo mediche) disastrose.

La proposta redatta dall’Intergovernmental Negotiating Body, istituito in piena crisi sanitaria a dicembre 2021, verrà esaminata a maggio prossimo per una valutazione finale.

Ma il percorso verso questo voto che precede la ratifica dei singoli stati membri non è roseo come lo fanno sembrare i vertici dell’organizzazione: fonti (rimaste anonime) del settore sanitario hanno riferito all’agenzia Reuters che ulteriori negoziati si terranno su un allegato dell’accordo non del tutto accolto - quello relativo all’accesso ai patogeni, punto cardine del documento, suo cuore pulsante.

Si tratta del Pabs, acronimo di “Pathogen Access and Benefit Sharing System”, un sistema di condivisione dei benefici prodotti dalla ricerca scientifica dei virus (ovvero: test, cure, vaccini), che consentirà una velocissima condivisione di dati e risultati ottenuti dagli studi sui patogeni.

Nel protocollo non c’è l’obbligatorietà di trasferimento tecnologico, e dunque la condivisione dei prodotti sanitari. La richiesta ai produttori è quella di destinare all’Oms il 20 per cento dei loro prodotti: il 10 per cento sotto forma di donazioni, il resto con prezzo accessibile.

Conoscenze, competenze e capacità produttive nazionali, si spera, la prossima volta saranno condivise internazionalmente. I virus non si fermano alle dogane di frontiera e nulla è certo tranne che uno nuovo, prima o poi, arriverà.

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