Negli ultimi anni studiosi, giornalisti e vari esperti hanno ripetutamente segnalato un declino della salute della democrazia nel mondo. A livello globale, sempre più paesi sono collocabili in un’estesa zona grigia che galleggia fra la democrazia (con vari gradi e aggettivi) e forme di autoritarismo.

La diffusione di pratiche illiberali mette la democrazia sotto stress anche in quei contesti che ne sembravano immuni fino a poco tempo fa. Lo abbiamo visto con l’assalto di Capitol Hill, ma lo stiamo vedendo anche sul suolo europeo nel contesto dello scontro fra l’Ue e alcuni stati membri, accusati di: indebolire o addirittura cancellare i meccanismi democratici di controllo orizzontale (in particolar modo di limitare drasticamente l’indipendenza della magistratura); trascurare o violare i diritti e i valori dell’Unione; controllare e manipolare i media restringendo così la libertà di espressione e il pluralismo nella sfera pubblica.

In prima fila ritroviamo la Polonia e l’Ungheria, fino a poco tempo fa paesi celebrati come modello di successo del processo di democratizzazione. Ma il fronte delle critiche tocca con minore o maggiore insistenza l’intero spazio postcomunista (si veda il rapporto Nations in transit 2022 di Freedom house), un’area sempre più distaccata dal modello liberal-democratico che aveva inspirato i criteri di Copenaghen nel 1993 e guidato il processo di allargamento negli anni successivi.

Il pomo della discordia non è rappresentato dalla democrazia ricondotta al principio di maggioranza scandita da elezioni ricorrenti – spesso libere e talvolta anche corrette –, quanto piuttosto da una messa in discussione della controllabilità del potere, del rapporto fra maggioranza e minoranze e, aspetto non secondario, della preminenza del diritto comunitario sul diritto nazionale.

Dall’infamia al vanto

Non si tratta tuttavia di un fenomeno recente, o non completamente. In un noto articolo pubblicato da F. Zakaria nel 1997, la diffusione della democrazia illiberale era già chiaramente segnalata; sempre più paesi si stavano adagiando in uno stato ibrido che mescolava livelli diversi di democrazia con contestazioni più o meno incisive dello stato costituzionale. A distanza di decenni, cambia però il modo in cui questa opposizione al pilastro liberale della democrazia viene esibita pubblicamente.

M. F. Plattner (2019) osserva che se per Fujimori o Menem quello di “illiberale” era un aggettivo denigratorio da smentire e controbattere per riconquistare credibilità interna e internazionale, una sorta di anatema da scongiurare, ai giorni nostri la dimensione illiberale viene invece affermata con orgoglio nello spazio politico e culturale democratico. Si passa così dall’obbrobrio alla gloria, dall’infamia al vanto.

All’origine di questa accezione positiva dell’aggettivo illiberale Plattner piazza il discorso che il primo ministro ungherese Viktor Orbán ha tenuto al programma estivo di Băile Tuşnad nel 2014. A dieci anni dall’ingresso nell’Unione europea, Orbán smantella la legittimità e l’utilità del sistema democratico liberale. Da un lato, dichiara la sua ammirazione per paesi che non sono democrazie liberali e, forse nemmeno democrazie, e che tuttavia riscontrano successo a livello internazionale: ad esempio Singapore, Cina, India, Turchia e Russia. Dall’altro, condanna la decadenza della civiltà occidentale.

Nella sua interpretazione, il declino è reso visibile dall’atrofia della capacità di attrazione dei valori occidentali, pervertiti da corruzione, sesso e violenza. A livello socioeconomico, tale declino si traduce in uno squilibrio fra l’interesse per il benessere degli immigrati e la mancata attenzione per i bisogni della classe media. Il fulcro del suo discorso diventa allora l’affermazione per cui la democrazia non è necessariamente liberale, e che la democrazia liberale, così come è stata vissuta nel postcomunismo ungherese, è andata contro l’interesse nazionale indebolendo i legami con la diaspora ungherese, favorendo il debito pubblico e mettendo a rischio la sopravvivenza delle famiglie ungheresi.

Quattro anni più tardi, la democrazia illiberale viene da Orbán configurata come una democrazia cristiana: si tratta, nuovamente, di una proposta coerente con uno stile di vita a forte trazione conservatrice, volto alla difesa della dignità umana, della famiglia e della nazione. La dimensione illiberale della democrazia cristiana fornisce, così, una visione capovolta dei valori della democrazia liberale e, dunque, si nutre dell’opposizione al multiculturalismo, all’immigrazione e ai modelli progressisti di famiglia.

Radici profonde

Dallo spazio politico ungherese la democrazia illiberale cristiana fa un salto rapido sulla scena europea, ricevendo l’acclamazione di vari leader politici a est e a ovest. Ma limitare il trionfo della democrazia illiberale alla retorica di Orbán sarebbe riduttivo. Il messaggio veicolato dal primo ministro ungherese si ritrovava già in una forma assai più raffinata in una fitta rete di intellettuali, di associazioni culturali e think tank che contestavano già dagli anni Novanta il consenso liberale.

In quest’ambito spicca la figura di Ryszard Legutko, filosofo e uomo politico polacco del partito Diritto e giustizia (PiS). Se nel caso di Orbán la denuncia della democrazia liberale nasce nel contesto marcato dal risentimento contro le misure di austerità – e, più in generale, dalle promesse non mantenute di sicurezza economica –, le posizioni conservatrici di Legutko sono più profondamente radicate, e già rintracciabili ai tempi della pubblicazione Arka durante gli anni Ottanta, della quale Legutko ha curato la traduzione di testi di noti pensatori (neo)conservatori britannici e statunitensi.

Nei primi anni Novanta attacca frontalmente l’ala liberale di Solidarność, accusata di aver tradito gli ideali dell’anticomunismo e di voler imitare le società occidentali decadenti, abbandonando i valori tradizionali cattolici. Duranti gli anni Duemila, al centro della sua battaglia si ritrova la denuncia dell’egemonia culturale del liberalismo nel periodo postcomunista e, nel suo testo cardine Il demone nella democrazia. Le tentazioni totalitarie nelle società libere (2012), afferma che la democrazia liberale è una minaccia simile al comunismo in quanto promotrice di un progetto ideologico volto a cancellare i valori tradizionali della comunità polacca (e occidentale in generale): la famiglia, la nazione e la religione.

Come per Orbán, è proprio l’apertura alla tolleranza e al compromesso – tipica delle democrazie liberali – a essere considerata portatrice di distruzione delle comunità tradizionali, in nome di posizioni di rottura e contrapposizione con solide logiche tradizionali: il multiculturalismo a scapito della cultura cristiana, l’accoglienza di immigrati a scapito dell’omogeneità culturale e del benessere economico del gruppo dei nativi, la fluidità di una “ideologia” del genere a scapito della famiglia tradizionale e della sopravvivenza demografica. L’idea di base è che il liberalismo è il demone all’interno della democrazia che minaccia la sopravvivenza culturale e fisica delle comunità nazionali in nome del progresso e della modernità.

È proprio in questa chiave di lettura che nel nuovo secolo ampie porzioni di società post-comuniste si sono mobilitate in manifestazioni di strada, in campagne di sensibilizzazione o in referendum volti a tutelare i valori tradizionali; la difesa della famiglia tradizionale è diventata in tutta la regione la quintessenza della resistenza al consenso liberale. La pandemia e la guerra in Ucraina hanno diminuito temporaneamente l’attenzione generale verso la diffusione dell’illiberalismo. Tuttavia, la caccia al demone rimane aperta e le tentazioni illiberali sono sempre più diffuse a livello culturale, politico e sociale. La fine della storia sembra ormai lontana, almeno per quel che riguarda la democrazia liberale sul suolo postcomunista.

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