Papa Francesco non uscirà a breve dal policlinico Gemelli dove è ricoverato da oltre un mese, ovvero dal 14 febbraio scorso. Questo è il dato concreto lasciato intendere dai medici che lo hanno in cura, attraverso quanto comunicato dalla sala stampa della Santa Sede.

Se infatti si continuano a registrare dei lievi ma costanti miglioramenti, è pure un fatto che il quadro complessivo resta estremamente delicato. Per la prima volta, nei giorni scorsi, Bergoglio ha anche fatto un uso minore dell’ossigenazione ad alti flussi con le cannule nasali, alternandola a una ossigenazione meno intensa.

Di notte tuttavia, resta indispensabile ricorrere ancora alla ventilazione meccanica non invasiva, anche se i medici stanno cercando di ridurre pure questa. L'obiettivo è quello di cercare di rendere il più possibile autonomo papa Francesco nella respirazione, una condizione quest’ultima, decisiva per pensare di programmare il ritorno del pontefice in Vaticano.

Vuoto di potere

In ogni caso, l’assenza prolungata del papa dalla sua abituale residenza a Santa Marta, rischia di assomigliare sempre di più a un vuoto di potere ai vertici della chiesa universale. È dunque in questo contesto che il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, sta assumendo un ruolo di sempre maggior peso.

In parte la cosa è inevitabile, data la funzione che ricopre. Secondo quanto si afferma nella costituzione apostolica Praedicate evangelium, con la quale Bergoglio ha inteso riorganizzare la Curia, «la segreteria di Stato, in quanto segreteria papale, coadiuva da vicino il romano pontefice nell’esercizio della sua suprema missione».

Alla norma, però, va aggiunta la qualità della persona. Parolin è un diplomatico vaticano a tutto tondo, discreto nei modi, poco incline ad alzare i toni e che sa però farsi ascoltare quando vuole. Conosce la virtù della pazienza e del dialogo anche con chi è lontano dalla tradizione cattolica.

In tal senso, per esempio, va sottolineato il suo impegno per aprire alla chiesa le porte del Vietnam e della Cina. Come pure, faticosamente, ha cercato di far uscire il cattolicesimo mediorientale dalle secche di una visione settaria, per provare a farlo approdare all’idea larga e inclusiva della cittadinanza.

Ucraina e non solo

Di fatto è lui che in questi giorni sta prendendo in mano il timone della barca di Pietro, anche in ragione del fatto che, in quanto capo della diplomazia vaticana, il suo è un volto conosciuto e autorevole all’interno e all’esterno della chiesa.

Da ultimo è intervenuto sul possibile negoziato di pace nel conflitto ucraino e sulle condizioni poste da Mosca per dare l’ok al cessate il fuoco: «Mi pare che da parte della Russia erano state poste delle precondizioni soprattutto per quanto riguarda l’osservanza della tregua, ma comunque che si avvii questo processo, visto che da parte dell’Ucraina c’è disponibilità per avviare questo cessate il fuoco. Bisognerebbe partire da lì per un negoziato per stabilire una pace giusta e duratura».

In questi termini si era espresso a margine di un incontro interreligioso organizzata dall’ambasciata del Marocco presso la Santa sede lo scorso 17 marzo. Le parole del cardinale facevano eco a una dichiarazione ufficiale del Vaticano nella quale si dava conto di una telefonata intercorsa fra lo stesso Parolin e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, quindi si spiegava come la Santa sede, «mentre rinnova la preghiera per la pace in Ucraina, auspica che le Parti coinvolte colgano l’occasione per un dialogo sincero, non soggetto a precondizioni di alcun tipo e finalizzato a giungere ad una pace giusta e duratura. In pari tempo, incoraggia che si faccia il possibile per la liberazione dei prigionieri».

Come si ricorderà, quello dello scambio dei prigionieri, oltre che della restituzione dei bambini rapiti dall’esercito russo dai territori occupati in Ucraina, era stato al centro della missione affidata dal papa al cardinale Matteo Zuppi, presidente dei vescovi italiani.

Parolin è poi intervenuto anche sul dibattito che ha investito l’Europa in merito alla questione del riarmo: «Prima o poi le armi devono essere usate, no? E questa è stata sempre un po’ la politica della Santa sede fin dalla Prima guerra mondiale, cioè insistere a livello internazionale perché ci sia un disarmo generale e controllato, quindi non si può essere contenti di questa direzione in cui si sta andando».

Non si dimette

Il segretario di Stato, è del resto uno dei pochi alti funzionari vaticani ad aver avuto la possibilità di visitare il papa in queste settimane. Per tale ragione le sue parole hanno un peso particolare. In merito, per esempio, all’ipotesi che il papa possa accettare l’idea delle dimissioni, il cardinale, rispondendo ai giornalisti, ha detto: «Assolutamente no».

«Io credo che noi dobbiamo attenerci ai bollettini medici – ha affermato ancora Parolin lunedì 17 marzo – perché sono quelli che ci dicono esattamente le condizioni del papa. Io l'ho incontrato una settimana fa, poi non ho più avuto occasione; l'ho trovato meglio rispetto alla prima volta, ma questa è soltanto una valutazione esterna».

«Non si possono avere dei colloqui approfonditi noi gli presentiamo le varie situazioni», ha spiegato ancora. Il che restituisce un’immagine parzialmente differente del papa e del governo della chiesa rispetto a quando, nei bollettini diffusi dal Vaticano, si affermava che il pontefice aveva alternato la preghiera o il riposo, al lavoro.

Fra le righe delle varie dichiarazioni del segretari di Stato, si colgono sfumature e attenzioni calibrate con abilità diplomatica senza però rinunciare all’assunzione di prese di posizione ben precise. In questo senso Parolin, sul piano internazionale, è stato un interprete fedele del pensiero di Francesco, e in qualche caso ha aggiustato qualche uscita troppo irruenta dello stesso pontefice.

© Riproduzione riservata