Hosh al-Bieaa è come una ferita. Nella piazza di Mosul dove si affacciano le quattro chiese – siro-cattolica, armeno-ortodossa, siro-ortodossa e caldea -, il palco rosso sulle rovine dove papa Francesco pronuncia la sua preghiera sembra una grande sutura: «La fraternità è più forte del fratricidio», dice il papa in quello che è la traccia tangibile della cancellazione operata dal sedicente Stato islamico (Isis).

Fra 2014 e 2017, Mosul è stata sottoposta a una sistematica devastazione da parte del califfato nero, con esiti anche contraddittori: prima di abbandonare il loro ultimo avamposto, i terroristi hanno infatti distrutto la moschea di Mūr ad-dīn, luogo simbolo per gli iracheni, dove poi Abu Bakr al-Baghdadi ha istituito il califfato nero. La città in questi anni sta pagando il prezzo della guerra, costellata di esplosivi e resti di corpi ancora dispersi. Solo un mese fa, tra le rovine di un palazzo, i militari iracheni hanno trovato i resti di 93 persone, presumibilmente resi schiavi dai combattenti dell’Isis.

Una città sospesa

La presenza di papa Francesco infonde speranza in una città dal tempo sospeso. Oggi Mosul non ha prospettive, e fatica ad arrestare l’emorragia dei giovani. Non si può risanare la memoria senza ricostruire il tessuto sociale. «No al terrorismo, no al settarismo, no alla corruzione», ha detto il papa, richiamando – come già aveva fatto a Baghdad – la metafora del tappeto: «Un tessuto culturale e religioso così ricco di diversità è indebolito dalla perdita di uno qualsiasi dei suoi membri, per quanto piccolo. Come in uno dei vostri tappeti artistici, un piccolo filo strappato può danneggiare l’insieme».

Nella spianata delle quattro chiese, il pontefice si è presentato come pastore universale del «Dio della vita, della pace, dell’amore». Nei suoi pensieri, non ci sono solo i cristiani: «Accolgo l’invito alla comunità cristiana a tornare a Mosul e ad assumere il ruolo vitale che le è proprio nel processo di risanamento e di rinnovamento», ha detto. Concedendosi fuori dal testo scritto, un accorato appello: «Com’è crudele che questo paese, culla di civiltà, sia stato colpito da una tempesta così disumana, con antichi luoghi di culto distrutti e migliaia e migliaia di persone – musulmani, cristiani, yazidi e altri – sfollati con la forza o uccisi!».

Il papa degli yazidi

Per la terza volta consecutiva, il pensiero del papa va agli yazidi. Se c’è un simbolo degli “scartati” dal mondo, questo sono loro, un popolo perseguitato per anni in una barbarie che ha messo in luce le contraddizioni delle stesse fazioni islamiche. Gli yazidi sono una comunità antichissima, tacciata negli anni di professare una religione grezza fatta di idoli, agli antipodi del credo islamico.

La loro persecuzione non è cominciata con il califfato nero: già sul finire dell’Ottocento, le truppe ottomane li sterminarono nella vallata di Lālīš e ne distrussero i luoghi di culto. Con l’occupazione di Mosul e del nord del Paese, l’Isis li ha strappati dalle montagne del Sinğār, sterminandoli e togliendo loro ogni valore: ha ucciso gli uomini e venduto le donne come schiave. Papa Francesco oggi, leader della chiesa cattolica, fa un passo ulteriore. Riconosce che, nella tragedia, c’è chi è un gradino sotto i dimenticati, e  li ricorda: gli yazidi, simbolo di un odio cieco e tenace nei secoli, incarnano il «filo spezzato» di un tappeto senza trama, per pura ideologia.

I dimenticati di Qaraqosh

Il papa ha raggiunto Qaraqosh percorrendo a ritroso le strade lasciate dai cristiani. Oggi, lungo le vie un tempo costeggiate dagli insediamenti cristiani, svettano le bandiere nere delle milizie sciite: una vera e propria forza di polizia che, dopo la sconfitta dell’Isis, ha colmato il vuoto lasciato dai cristiani esuli, confiscando anche la loro proprietà. Ancora oggi la costruzione del tessuto sociale è minata dalle controversie, che commissioni come quelle guidate dal leader sciita Muqtada al Sadr, sta cercando di dirimere.

Nell’area di Qaraqosh, i cristiani si sentono in una posizione di debolezza, nonostante nella città sia rientrato il 46 per cento della comunità: «Questo è il momento di risanare non solo gli edifici, ma prima ancora i legami che uniscono comunità e famiglie, giovani e anziani», ha detto papa Francesco nella chiesa dell’Immacolata Concezione. La città, dove Daesh ha martirizzato i bambini cristiani, reca il segno incancellabile di un odio irreversibile, come ha ricordato la voce straziante della madre di un figlio brutalmente ucciso dai miliziani: «Ci sono momenti in cui la fede può vacillare, quando sembra che Dio non veda e non agisca. Questo per voi era vero nei giorni più bui della guerra, ed è vero anche in questi giorni di crisi sanitaria globale e di grande insicurezza. In questi momenti, ricordate che Gesù è al vostro fianco. Non smettete di sognare! Non arrendetevi, non perdete la speranza!», ha esclamato Francesco.

Ripartire dalle madri

In modo implicito, il pontefice ha negato l’utilizzo delle armi. Lo ha fatto in una terra che, per rispondere alla violenza dell’Isis, ha visto nascere piccole milizie cristiane, brigate nate per proteggere piuttosto che attaccare: «Perdono: questa è una parola-chiave. Il perdono è necessario per rimanere nell’amore, per rimanere cristiani. La strada per una piena guarigione potrebbe essere ancora lunga, ma vi chiedo, per favore, di non scoraggiarvi. Ci vuole capacità di perdonare e, nello stesso tempo, coraggio di lottare. So che questo è molto difficile. Ma crediamo che Dio può portare la pace in questa terra. Noi confidiamo in Lui e, insieme a tutte le persone di buona volontà, diciamo ‘no’ al terrorismo e alla strumentalizzazione della religione», ha ricordato.

Con il pensiero ai martiri di Qaraqosh, papa Francesco ha anche ricordato i «martiri viventi»: le madri. L’immagine della Madonna, potentemente evocata dalla statua della Vergine decapitata e ricomposta nello stadio di Erbil, diventa il paradigma di tutte le donne, insieme resistenza tenace ma dimenticata. Nel momento di massima ascesa dell’Isis in Siria e in Iraq, la Fondazione Quilliam - think tank con sede a Londra – denunciava la presenza di oltre 30mila donne trattenute dai militanti per alimentare l’organizzazione terroristica attraverso gravidanze forzate.

Oggi quelle stesse donne vivono, accanto al dolore della perdita, il senso di colpa di sentirsi respinte dall’Occidente. Prendendo le mosse proprio dalle madri «ai cui piedi si colloca il paradiso» secondo le parole di Maometto, il papa invita a ripartire dal loro esempio: «Così fanno le madri: consolano, confortano, danno vita. E vorrei dire grazie di cuore a tutte le madri e le donne di questo Paese, donne coraggiose che continuano a donare vita nonostante i soprusi e le ferite».

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