Tenuta a distanza da Pechino (ufficialmente per le restrizioni anti-Covid) e dai funzionari del Partito comunista più vicini a Xi Jinping, che l’inviata di Biden avrebbe voluto incontrare. Accolta dalla sardonica promessa del ministro degli Esteri, Wang Yi, di omaggiarla di un «tutorial su come trattare in modo eguale le altre nazioni». Infine, dopo 48 ore, rientrata a Washington con una lista di condizioni dettate dai cinesi agli americani per riprendere il dialogo, un fatto senza precedenti in epoca post maoista.

Non devono essere state due giornate facili quelle passate a Tianjin dalla sottosegretaria di Stato Wendy Sherman, che aveva il compito di riportare un po’ di sereno tra la prima e la seconda economia del pianeta dopo il gelo di Anchorage, in Alaska, dove il 18 marzo scorso le due delegazioni si erano scambiate pesanti accuse reciproche davanti agli obiettivi delle telecamere.

«Siamo arrivati a questi colloqui senza attenderci alcun risultato specifico», ha dichiarato Sherman all’Associated press. Il dipartimento di stato americano ha riferito che Sherman ha fatto presenti a Wang «le nostre preoccupazioni sui diritti umani, inclusa la repressione antidemocratica di Pechino a Hong Kong; il genocidio e i crimini contro l’umanità in corso nel Xinjiang; gli abusi in Tibet; e la limitazione dell’accesso ai media e della libertà di stampa». La diplomatica statunitense ha parlato col ministro anche «delle nostre preoccupazioni per le azioni di Pechino nel cyberspazio, nello Stretto di Taiwan; nel mar Cinese meridionale e orientale». Infine, un biasimo per «la riluttanza della Repubblica popolare cinese a collaborare con l’Organizzazione mondiale della sanità» (Oms), per una seconda fase dell’inchiesta, in Cina, sulle origini del Covid-19.

Le richieste cinesi

L’incontro di Sherman con Wang era stato preceduto da quello col suo vice, Xie Feng, che si è concluso con la consegna da parte di quest’ultimo alla funzionaria americana di due elenchi: uno con le richieste che Xi Jinping e compagni pretendono vengano accolte per far ripartire il dialogo con Washington; l’altro con le principali preoccupazioni di Pechino.

Nel primo c’è la richiesta di eliminare le restrizioni imposte agli spostamenti all’estero di funzionari del Partito (e delle loro famiglie) sanzionati da Trump e Biden, quella (molto popolare) di cancellare le limitazioni all’ingresso negli Stati Uniti degli studenti cinesi, le restrizioni nei confronti degli istituti di cultura Confucio, che gli Usa la smettano di bollare i media cinesi come “agenti stranieri”, nonché il ritiro della richiesta di estradizione per Meng Wanzhou, la chief financial officer di Huawei agli arresti domiciliari in Canada.

Nel secondo si esprime preoccupazione per il «trattamento ingiusto» dei cinesi negli Stati Uniti, del personale dell’ambasciata e dei consolati della Rpc negli Usa, per gli attacchi contro cittadini cinesi e l’aumento della violenza contro gli asiatici (negli ultimi due anni negli Usa c’è stato un boom di aggressioni contro persone di origine asiatica, nda).

Mentre il G20 del prossimo 30-31 ottobre a Roma si avvicina, la possibilità di un faccia a faccia Xi-Biden in quell’occasione appare lontana.

Secondo Xie le relazioni Pechino-Washington sono «in stallo» e «rischiano gravi conseguenze». La colpa sarebbe tutta di Washington, che ha deciso di trattare Pechino come un nemico. «Lo scontro e il containment sono gli elementi fondamentali – ha dichiarato Xie – la collaborazione è diventata un espediente. Quando gli Usa hanno bisogno della Cina, allora si parla di cooperazione, ma nelle aree in cui la Cina ha ottenuto vantaggi, loro tagliano le catene di fornitura e impongono sanzioni».

«Invitiamo gli Stati Uniti a non sottovalutare la ferma determinazione il desiderio e la capacità di un popolo di 1,4 miliardi di persone di salvaguardare gli interessi, la sicurezza e lo sviluppo della Cina».

Da sottolineare che tutto ciò avviene sullo sfondo di un’esplosione di nazionalismo in Cina e di un’opinione pubblica mai così anticinese negli Stati Uniti, e di un crescendo di tensioni in aree sensibili come il mar Cinese meridionale e orientale, e Taiwan, dove i rispettivi eserciti sono impegnati in continui giochi di guerra che accompagnano le schermaglie diplomatiche.

Sono diverse le ragioni per le quali Pechino ostenta sicurezza, o hybris, a seconda dei punti di vista.

Il paese nel quale è esplosa l’epidemia divenuta pandemia ha superato rapidamente (e, ufficialmente con 4.636 morti) il Covid-19. La sua economia si è rimessa in moto e, nel primo semestre 2021, l’interscambio commerciale con gli Stati Uniti è aumentato del 45,7 per cento (340 miliardi di dollari): le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti sono aumentate del 42,6 per cento mentre le importazioni dagli Usa sono cresciute del 55,5 per cento. I mercati cinesi continuano a essere strategici per le multinazionali Usa. Quanto a lungo i dazi varati da Trump e le sanzioni volute da Biden potranno resistere al richiamo dei consumatori cinesi?

Prima di sbarcare a Tianjin, Sherman era stata in Giappone, Corea del Sud e Mongolia, per mostrare l’impegno di Washington a contribuire all’apertura e alla libertà nell’ampia regione Indo-Pacifica, dopo il sostanziale disinteresse da parte di Trump nei confronti dell’area più dinamica del pianeta e i progetti mai decollati di Barack Obama e Hillary Clinton, tutti alla fine risucchiati dagli sforzi bellici in Afghanistan, in Iraq e in medio oriente.

Hybris o rischio calcolato?

Forte dei suoi numeri, il governo cinese pretende di essere trattato da quello di Washington da pari a pari, e non come un paria. Secondo Pechino la repressione dei musulmani del Xinjiang e del movimento di Hong Kong sono «affari interni» che non devono influire sulla relazione bilaterale. Giovedì scorso il vice ministro della sanità, Zeng Yixin, si era dichiarato «scioccato» per la proposta dell’Oms di condurre una seconda indagine sull’origine del Covid-19 in Cina, definita dal funzionario governativo «arrogante, irrispettosa e priva di buonsenso». Pechino si era spinta oltre, accusando il capo dell’Oms,Tedros Adhanom Ghebreyesus, di aver ceduto alle pressioni politiche statunitensi.

Sulle origini del Covid-19 come su tutti gli altri dossier più caldi che la dividono dagli Stati Uniti, sembra che Pechino abbia scelto – come da “invito” del Global Times – di «giocare duro». Due giorni fa il tabloid nazionalista ha sostenuto che «dobbiamo dimostrare la nostra determinazione e capacità di affrontare gli Stati Uniti e batterci contro la loro arroganza. La capacità dell’amministrazione Biden di affrontare questioni difficili tra Cina e Stati Uniti è molto inferiore rispetto a quella del governo Trump. Hanno già molte meno risorse rispetto a quattro anni fa e lo stesso Biden ha meno potere decisionale di Trump». E se l’auspicio del tabloid nazionalista rispecchiasse un calcolo della leadership cinese? Non aprire alcuno spazio di trattativa su quelli che Pechino considera “linee rosse” (Hong Kong, Xinjiang, Taiwan) anche a rischio di tensioni finora inimmaginabili con gli Usa (e con l’occidente), nella “certezza” che, alla fine, sarà Washington ad arrendersi agli interessi delle sue corporation e alla determinazione della diplomazia cinese, anche perché il mandato di Biden sarà assorbito soprattutto da preoccupazioni interne, relative all’urgenza di far ripartire l’economia americana e di affrontare le tensioni sociali e le divisioni tra le diverse comunità.

Ieri il New York Times titolava che «La strategia di Biden (di essere inflessibile sui diritti e di trattare su altri temi, ad esempio il clima, il nucleare iraniano e quello nordcoreano, nda) incontra resistenza al tavolo negoziale».

La leadership del Partito ha messo in conto la possibilità di un lungo braccio di ferro con un’amministrazione americana impegnata anzitutto sulle questioni economiche e sociali e che – è questo il calcolo che si fa a Zhongnanhai, la residenza accanto alla Città proibita dove vivono i leader del Pcc – prima o poi sarà costretta ad andare a Cangossa.

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