«Il caso messicano è stato in certo modo il detonante dello scandalo Pegasus già nel 2017 e da allora abbiamo ricevuto costantemente notizie. È una cosa che non riguarda solo i giornalisti ma anche i difensori dei diritti umani. Ma quello che si è scoperto adesso è molto grave, sia per grandezza sia per il livello delle rivelazioni. Sapere che l'intenzione era infettare 15mila utenze telefoniche è impressionante». Marcela Turati (Città del Messico, 1974) non è una persona che si impressiona facilmente. È una delle giornaliste investigative più riconosciute in America Latina per le sue inchieste sulle violazioni dei diritti umani e le vittime della violenza della guerra al narcotraffico in Messico.

Il suo numero è nella lista di 50mila utenze telefoniche identificate come obiettivo potenziale di spionaggio da parte di mezzo centinaio di governi attraverso il software Pegasus, sviluppato e commercializzato dalla società israeliana NSO Group. «Sono anni che noi giornalisti in Messico facciamo corsi di sicurezza digitale. Ci hanno insegnato a non usare Zoom, a togliere quando si poteva la batteria dei telefoni. Ma Pegasus è qualcosa di molto diverso, perché prende il controllo dell'apparato e ha accesso a tutta la tua vita, i contatti, le foto. È un altro livello».

Nato per spiare terroristi e criminali, il software è però diventato uno strumento di controllo di giornalisti, oppositori e attivisti, secondo le informazioni pubblicate nell'inchiesta Pegasus Project, a cui hanno partecipato 17 testate internazionali tra cui Le Monde e The Guardian, e partita dopo che le organizzazioni Forbidden Stories e Amnesty International hanno avuto accesso a un leak. In Messico si trova il maggior numero di utenze della lista, diventate obiettivo di spionaggio tra il 2016 e il 2017, durante la presidenza di Enrique Peña Nieto.

Messico apripista

Il Messico è stato il primo paese ad acquistare Pegasus nel 2011, divenendo, scrive The Guardian, una sorta di laboratorio per una tecnologia di spionaggio che era ai suoi inizi. La “guerra alla droga” era iniziata già da cinque anni e l'esercito e la polizia erano già stati implicati in casi di abusi dei diritti umani, torture e esecuzioni extragiudiziarie.

Non è possibile sapere se tutti i numeri sono stati poi effettivamente infettati, perché per farlo bisogna analizzare ogni singolo telefono, ma l'inchiesta conferma quello che Marcela Turati e per molti giornalisti in Messico era già chiaro. «Ho sempre avuto strani problemi di sicurezza digitale negli ultimi cinque anni. Mi hanno hackerato varie volte prima della pubblicazione di inchieste importanti. Nel 2016, quando stavamo per pubblicare un'inchiesta sui massacri di immigranti (l'uccisione di 72 migranti a San Fernando, nello stato di Tamaulipas, ndr) la pagina web fu hackerata senza che avessimo annunciato la pubblicazione», spiega Turati all'indomani dell'indagine che ha messo di nuovo allo scoperto la vulnerabilità dei giornalisti in Messico, il paese con il più alto numero di giornalisti uccisi, secondo l'ultimo rapporto del Committee to Protect Journalists, con 120 giornalisti assassinati dal 2000 e un altissimo tasso di impunità.

Turati da anni si dedica a creare reti di sostegno e protezione a chi, fuori dai riflettori della cronaca e delle testate nazionali, si occupa di indagare e coprire i crimini legati al narcotraffico, alla guerra ai narcos e alla corruzione istituzionale. Lo ha fatto prima con l'organizzazione Periodistas a Pie e ora con Quinto Elemento Lab, un laboratorio di giornalismo investigativo fondato nel 2017 e da subito finito nel mirino. «Amici e collaboratori ricevono mail strane, con link da aprire. E tutti e tre noi giornalisti che abbiamo fondato Quinto Elemento Lab abbiamo avuto problemi di questo tipo».

Nomi ricorrenti

I tre fondatori fanno parte dei 25 giornalisti identificati nella lista delle 15mila utenze messicane contenute nel leak del Pegasus Project. Per altri è una conferma di inchieste precedenti. È il caso della giornalista Carmen Aristegui, che aveva indagato un caso di conflitto di interessi che riguardava l'allora presidente e risultava già spiata nell'inchiesta pubblicata nel 2017 dal New York Times. L'autore di quell'inchiesta, Azham Amed, compare adesso nella lista di questa nuova indagine.

Tra i 25 giornalisti obiettivo di spionaggio – ma che secondo Turati potrebbero essere molti di più perché non tutti i numeri sono stati ancora identificati – c'è anche Cecilio Pineda, un reporter assassinato a marzo del 2017 nello stato di Guerrero, uno dei pipu colpiti dalla violenza del crimine organizzato. Nelle settimane precedenti Pineda aveva denunciato di aver ricevuto minacce, nello stesso periodo in cui, secondo quanto pubblicato dal Guardian, il suo telefono è diventato possibile obiettivo di sorveglianza da parte di un cliente messicano.

Il cerchio si allarga

Il caso di Pineda alimenta i sospetti che il software sia stato usato oltre i canali ufficiali noti, anche se la società israeliana NSO Group ha sempre ribadito che il software è un prodotto che si vende esclusivamente ai governi. Durante il governo di Peña Nieto (2012-2018) il software israeliano fu usato in Messico dalla procura generale, dal Cisen, i servizi segreti messicani, e dall'esercito. Il nuovo presidente, Andrés Manuel López Obrador, ha assicurato che il software non è più in uso ma le indagini sulle informazioni già pubblicate nel 2017 non hanno prodotto ancora risultati, come sottolineava un articolo apparso il 19 luglio sull'edizione messicana del quotidiano El País.

Proprio El País ha rivelato ad aprile che l'attuale procura generale ha comprato programmi di intelligence per lo spionaggio di telefoni alla società Neolinx che, secondo il quotidiano, ha fatto da intermediaria all'italiana Hacking Team. «È dal 2017 che conosciamo queste informazioni. Nel 2017 era chiaro che l'allora governo non avrebbe indagato, ma questo nuovo è in carica da tempo ormai e non sappiamo ancora che cosa è successo, quali sono stati i danni, chi ha comprato, quale società e dove sono i funzionari che si occupavano di questa cosa... Non c'è stata una depurazione di responsabilità, nell'esercito ci sono gli stessi e nella procura solo alcuni se ne sono andati...», commenta Turati.

Nel periodo a cui si riferisce l'indagine pubblicata dal Pegasus Project Turati, che all'epoca scriveva per la rivista Proceso, stava lavorando a varie indagini importanti: il massacro dei migranti a San Fernando a Tamaulipas, la mappa delle fosse comuni sparse per il territorio nazionale, la prova delle migliaia di vittime della guerra al narcotraffico. «In quel periodo successero molto cose: chiamate con informazioni false, gente strana che si proponeva come fonte. Da casa mia non potevo accedere a pagine internet come quelle della Sedena (il ministero della Difesa messicano, ndr) perché mi avevano bloccata», spiega.

Il 2017, l'anno in cui fu ucciso Pineda, fu un anno nero per la libertà di informazione in Messico. Furono 18 i giornalisti uccisi. Tra di loro anche la reporter Miroslava Breach e il giornalista e scrittore Javier Valdés, fondatore del settimanale Riodoce a Sinaloa, che per i suoi lavori sul narcotraffico aveva ricevuto vari premi internazionali. «Il 2017 fu un anno orribile. Uccidono Pineda che aveva denunciato il suo caso e aveva chiesto protezione al governo, e non si sa chi lo aveva messo sotto vigilanza. È lo stesso anno in cui uccidono Javier Valdés, e dopo l'omicidio cercano di infettare i telefoni degli altri fondatori di Riodoce e della vedova di Javier», conclude Turati.

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