Le armate invincibili dei mari un tempo marcavano il potere politico globale. Oggi, più prosaicamente, rastrellano e devastano gli oceani per portare calamari e tonni su tavole a migliaia di chilometri di distanza. È l’effetto Cina, con l'aggiunta della sushi economics: ormai sono guai se in una qualunque cittadina del nostro pianeta, non importa a quale latitudine o livello di sviluppo, manca a portata di rider un ristorante di pesce più o meno crudo. Quindi la partita è mondiale e senza il minimo fair play.

Le trecento imbarcazioni cinesi

Quando lo scorso agosto i ricercatori della ong Oceana esaminarono le mappe satellitari delle isole Galapagos si accorsero di qualcosa difficile da credere. Oltre 300 puntini luminosi erano parcheggiati senza sgarrare di un metro sui limiti del cerchio che delimita la Zee (zona economica esclusiva) nell' arcipelago che fece balenare a Charles Darwin la teoria dell'evoluzione.

La Zee è l'area marina, più ampia di quella delle acque territoriali, che può essere utilizzata soltanto dal paese adiacente. Quei puntini erano 300 imbarcazioni cinesi, e secondo i calcoli del satelliti, si fermarono a pescare per un mese di fila, o un totale di 73mila ore. Pesca legale perché in acque internazionali, seppur di poco. Vi erano arrivati dopo un viaggio di settimane, circumnavigando il continente dopo aver passato lo stretto di Magellano, in Patagonia, e prima aver pescato a lungo al largo delle acque argentine.

(La mappa elaborata dalla ong Oceana, che ha individuato le 300 imbarcazioni cinesi)

La scelta delle Galapagos non è casuale. Mettersi sul bordo di una delle aree marine più sacre della terra significa assicurarsi un bottino strepitoso. Infatti i cinesi se ne tornarono a casa con le barche colme, calamari soprattutto, ma anche tonni e pesce spada. I calamari non sono in pericolo di estinzione, ma come principale alimento dei grandi pesci e delle specie più tipiche dell'arcipelago, come i leoni marini, sono essenziali alla catena alimentare. Un'altra spedizione punitiva come quella, una specie di Pearl Harbor della riserva marina, e tutto l'ecosistema inizierebbe a soffrire.

La sovrapesca o “overfishing”

La vicenda dell'invasione cinese alle Galapagos è emblematica di come la sovrapesca, o overfishing, non si fermi, stia cercando sempre nuovi spazi e ormai adotti tecniche militari. Se in passato erano soprattutto i giapponesi a battere le acque internazionali in cerca di tonni pregiati per i loro esclusivi sushi e sashimi, oggi la Cina è diventata anche in questo settore il primo consumatore, con un terzo di tutto il pescato mondiale, e l'attore più potente nel commercio ittico.

Le spedizioni cinesi in alto mare possono durare anni, il che è giustificato dalle distanze enormi da casa: i pescherecci sono continuamente riforniti da navi appoggio e il pesce portato via da altre dopo il congelamento. Il problema è che la legalità di questo modus operandi è praticamente impossibile da controllare su entrambi i fronti, quello del rispetto dei confini nazionali e dei limiti alla sostenibilità delle specie. Le imbarcazioni riconosciute dai satelliti possono essere soltanto una parte del numero reale, perché chi pesca in zone proibite ha come abitudine quella di staccare i transponder. Sempre secondo la ong Oceana i cinesi avrebbero in giro per gli oceani fino a 17mila pescherecci (gli Stati Uniti ne hanno 300, la Ue 250, per dire), il 40 per cento del mercato e violerebbero le acque territoriali di almeno 50 paesi.

Le acque attorno all'America del Sud sono la nuova prateria dell'overfishing, soprattutto quelle fredde a sud, e gli sconfinamenti proibiti una costante. Finora i cinesi hanno  potuto contare sulla benevolenza dei governi locali, ai quali sono legati da forti interessi commerciali (basti pensare al peso della soia sudamericana esportata in Estremo oriente), ma ogni tanto ci scappa una lite seria. Per l'operazione Galapagos la Cina ha dovuto chiedere scusa all'Ecuador e promettere che non succederà più. In Argentina due anni fa un peschereccio cinese venne affondato da una fregata dopo essersi rifiutato di lasciare le acque territoriali. Da altri litorali del mondo, come Indonesia e Africa del Sud, i cinesi hanno dovuto allontanarsi da tempo per ripetuti scontri con pescatori locali o per le proteste diplomatiche.

Gli appoggi in America Latina

Quando le spedizioni si trovano ormai agli antipodi dalle coste cinesi, come è il caso dell'America del Sud, le staffette di approvigionamento in alto mare diventano critiche, e la necessità di una logistica in terra ferma si fa impellente. Per questo i cinesi corteggiano pesantemente i politici locali per poter impiantare porti propri. Dopo una lunga trattativa in Uruguay, a causa della forte opposizione locale e dei vicini argentini, è saltato il progetto di un maxiscalo in una zona franca non lontana da Montevideo: moli da 880 metri per 500 navi fino a 50.000 tonnellate. Più la fabbrica di congelamento e processamento del pesce. E' notizia recente che i cinesi ci starebbero riprovando non lontano, stavolta nello stato brasiliano del Rio Grande do Sul. Un progetto più piccolo, ma con lo stesso obiettivo: creare una logistica a imbarcazioni lontane 10.000 chilometri dai porti di partenza.

Il multilateralismo battuto dal sushi

La pesca in alto mare è un pessimo esempio di globalizzazione e di fallimento delle istituzioni internazionali. Sono anni che in sede Wto (l’organizzazione mondiale del commercio) si tenta inutilmente di discutere gli enormi sussidi (22 miliardi di dollari l'anno) che i governi garantiscono alle proprie flotte di pescherecci e che sono alla base dell'eccesso di prelievo dai mari. L'overfishing è quello che in economia si chiama la tragedia dei beni comuni, dove quello che è di tutti è utilizzato per interessi particolari, distorcendo il mercato. Il Wto stima che dal 1974 al 2015 la quota di pescato non più sostenibile sia passato dal 10 al 35 per cento.

Non è stato fatto un solo passo in avanti, mentre appare sempre più evidente che i sussidi diano carburante alla pesca illegale, la quale secondo alcune stime rappresenta tra il 10 e il 25 per cento del totale. La riduzione degli stock di pesce avanza inesorabile e basterebbe per raccontarla la storia di un unico esemplare, il tonno pinna blu che noi chiamamo più spesso rosso, per il colore della sua carne.

E il tonno rosso si estingue

Per questo pesce, presente in quasi tutti i mari del mondo, giapponesi e cinesi hanno prima fatto fuori oltre il 90 per cento degli esemplari nei mari davanti alle proprie coste, per poi andarlo a cercare o comprare altrove. Con il boom planetario del sushi, il tonno rosso è a rischio estinzione in tutte le sue sottospecie. In teoria, sin dagli anni Sessanta, esiste in sede Fao una apposita commissione internazionale, la Iccat, che ne regola la pesca. Ma per gli ambientalisti è una pagliacciata, in mano agli stessi predatori dei mari che fissano le quote secondo la propria convenzienza.

Nel Mediterraneo, dove il tonno rosso si riproduce, le cose vanno un po' meglio, grazie alle regole comunitarie e a tentativi recenti di crescere in cattività un pesce impossibile da contenere. Al largo di Malta ci sono le più grandi gabbie in mare dove esemplari giovani catturati con le reti vengono portati a ingrassare fino alla mattanza. Ma alla riproduzione totale in allevamento non si è mai arrivati. Nel resto degli oceani vige invece la più totale anarchia.

Economia del sashimi

È la sushi economics, bellezza! Se si pensa che fino a pochi decenni fa in Italia il tonno che non finiva in scatola si dava al gatto, perché grigliato era considerato stucchevole e mangiarlo crudo impensabile, ecco che lo sguardo si sposta sulle leggendarie aste al mercato di Tokyo, dove a gennaio 2019 un solo esemplare di 278 chili è stato venduto a 3,1 milioni di dollari, attuale record.

Il “Tuna King” (il re del tonno) è un tale Kiyoshi Kimura, re dei ristoratori della capitale giapponese che da anni da solo fa il mercato dei tonni giganti. Sostiene che la parte più grassa del filetto più pregiato del pesce, una specie di culatello del tonno, consente di vendere una singola fetta sottile di sashimi rosso per la modica cifra di 85 dollari. Fosse solo questo il mercato, il tonno rosso sarebbe salvo per i prossimi millenni. Il problema è che lo stesso prodotto è presente in tutti i sushi e sashimi della terra, compresi i “mangia finché puoi per 19,90 euro”, e il suo conto alla rovescia è cominciato da tempo.

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