Ha avuto ragione il presidente Biden a ritirarsi dall’Afghanistan? Tre mesi fa ho scritto che chi pensa che la risposta sia ovvia non si sta ponendo seriamente la domanda. Lo credo ancora. È una questione complicata.

Ho anche detto: «Sono risolutamente agnostico riguardo alla decisione del presidente Biden di ritirarsi». Questo invece non è più vero. I due mesi passati mi hanno spinto dall’altra parte del dibattito, nella direzione di Biden.

Non che le cose siano andate bene. Ritirando tutte le truppe dall’Afghanistan rapidamente e senza un’adeguata preparazione, Biden ha consegnato il paese ai Talebani, che si sono adoperati da subito per reprimere la popolazione. Il suo indice di gradimento è sceso drasticamente.

Tuttavia, penso che Biden abbia fatto la cosa giusta. La ragione è legata a quello che ha detto, ma ancora di più a ciò che i suoi critici non hanno detto. Non avevano intenzione di essere onesti con loro stessi o con l’opinione pubblica sulle vere implicazioni della soluzione politica che preferivano. Il che significa che non avevano affatto una soluzione.

Il costo di rimanere

L’argomento migliore per rimanere in Afghanistan è che stabilizzare il paese era diventata un’operazione relativamente a basso costo e impatto leggero. Dal 2014 le vittime americane sul campo sono state ogni anno a doppia cifra.

Gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo di supporto e gli afghani hanno fatto la maggior parte del lavoro. Come ho scritto in agosto, il basso numero di vittime americane e l’apparente sostenibilità dell’operazione ha fatto sì che la corsa verso l’uscita di Biden sembrasse sconcertante, se non addirittura perversa. Quello che stavano facendo gli Stati Uniti stava funzionando, perché interromperlo?

Il problema di questa posizione è che il nemico guadagna punti. Nel caso di una rivolta agguerrita, motivata e benedetta da un porto sicuro oltre il confine in Pakistan, il nemico guadagna un sacco di punti.

Negli ultimi anni il basso numero di vittime americane probabilmente è stato un riflesso non tanto dell’efficacia della strategia militare americana, quanto del fatto che i Talebani hanno giudicato un guadagno residuale attaccare le forze americane, perché si aspettavano che ce ne saremmo andati. Nel frattempo hanno massacrato gli afghani e ottenuto costanti conquiste territoriali. 

Se gli Stati Uniti fossero rimasti, «i Talebani, certamente, avrebbero iniziato ad attaccare le truppe rimaste», scrive la mia collega del Brookings Institution Vanda Felbab-Brown su Foreign Affairs.

«Washington sarebbe tornata a condurre una guerra su vasta scala contro i Talebani, con tutte le vittime che questa comporta, senza una fine all’orizzonte». Aggiunge: «Non c’è mai stato uno scenario realistico in cui uno sforzo limitato di 2.500-5.000 soldati statunitensi, anche ipotizzando un impegno americano a tempo indeterminato, avrebbe potuto alterare le fondamentali dinamiche deleterie di un governo e di un esercito afghano che non avevano intenzione di riformarsi e di quello talebano in ascesa».

Alternative insostenibili

E se si fosse fosse trattato di presenza militare più ampia, lunga e duratura? Gli Stati Uniti hanno presidiato la Germania, il Giappone e la Corea del Sud dagli anni Cinquanta. Hanno quasi 30mila soldati in Corea del Sud, circa 35mila in Germania e oltre 50mila in Giappone. Nessuno chiede che tornino a casa (anche se il presidente Trump se ne era lamentato).

Un tipo di impegno del genere potrebbe davvero portare la pace in Afghanistan, ma non sarebbe nulla di diverso da quei dispiegamenti senza incidenti della Guerra fredda in Europa e in Asia (o nel caso della Corea del Sud, relativamente senza incidenti).

In nessuno di questi paesi gli Stati Uniti sono andati incontro a una guerra civile decennale, una risposta armata vigorosa e un governo locale corrotto e incompetente. Semmai, la presenza indefinita delle truppe americane in Afghanistan sembrava destinata a provocare e mantenere l’insurrezione stessa che avrebbe dovuto reprimere, come già stava accadendo.

Anche così qualcuno potrebbe ancora sostenere la permanenza in Afghanistan con argomenti solidi e intelligenti. Forse semplicemente ne vale la pena. Riunire l’intelligence, combattere il terrorismo e difendere i diritti umani sono priorità importanti per gli Stati Uniti.

Eppure la domanda sorge: chi lo dirà al popolo americano? Dovrebbe essere il presidente, se la scelta è per una campagna militare a tempo indeterminato («sulla base di certe condizioni»), a dichiarare onestamente i fini che persegue e i mezzi che impiega.

Vorrebbe dire preparare la popolazione a un impegno di lunga durata e a volte difficile. In particolare, vorrebbe dire fare un discorso di questo tipo.

Ecco dunque come stanno le cose:

«Le truppe americane rimarranno in Afghanistan per un periodo indeterminato. Non piace a me, non piace a voi, ma bisogna farlo. Resteremo fino a quando non avremo sconfitto i Talebani in modo definitivo o riusciremo a mettere in piedi un accordo di pace sostenibile e tollerabile. Entrambi questi risultati dipendono dallo sviluppo di un governo afghano in grado di cavarsela da sé, e questo non è un risultato che possiamo garantire o controllare. Francamente, è possibile che si tratti di un’altra decina d’anni. Forse di più». 

«I costi potrebbero aumentare, sia in termini fiscali, sia umani. I Talebani attaccheranno il nostro esercito, soprattutto se pensano di poterci cacciare. I combattimenti potrebbero inasprirsi e diventare più costosi. Faremo tutto il possibile per mantenere ridotte la nostra presenza e le nostre vittime, ma le cose potrebbero complicarsi e dovremmo tutti essere preparati anche a questa eventualità. Non possiamo dissuadere i talebani o riformare il governo afghano a meno che non vedano che siamo veramente impegnati».

«Di conseguenza, stiamo impiantando una guerra quasi permanente. Per la natura della sfida che ci attende, cercheremo un sostegno duraturo da parte del Congresso, degli afghani e dei nostri alleati. Questo potrebbe comportare la predisposizione di nuove basi, accordi sullo stato delle forze armate, partnership internazionali e stanziamenti permanenti. La mia amministrazione non parlerà più della guerra come se finisse da un giorno all’altro».

Non ho visto molti di quelli che volevano rimanere intenzionati a fare un discorso simile. Di certo, nessuno dei predecessori di Biden voleva farlo. Al contrario, le tre amministrazioni precedenti sono state ambigue, o peggio.

Nel maggio del 2003 l’allora segretario della Difesa, Donald Rumsfeld, ha annunciato che le truppe statunitensi avevano concluso le principali operazioni di combattimento in Afghanistan, un’affermazione che lui e i suoi comandanti in campo sapevano essere falsa.

Nel dicembre del 2014 Barack Obama fece un annuncio simile, dichiarando che «la nostra missione di combattimento in Afghanistan sta finendo» e «la guerra più lunga della storia americana sta arrivando a una conclusione responsabile».

Come ha recentemente dichiarato in un’intervista Craig Whitlock, l’autore di The Afghanistan Papers: A Secret History of the War: «Ovviamente non era vero neanche questo. Eravamo ancora impegnati in combattimento per gli anni a venire. Decine di americani erano morti in combattimento e anche migliaia di afgani. Quindi c’è stato un tentativo deliberato da parte di diversi presidenti e delle loro amministrazioni di rassicurare gli americani sul fatto che la guerra era sotto controllo, quando in realtà non lo era».

Lo stesso, secondo Whitlock, si poteva dire di molti comandanti americani. «Non dicevano la verità. Esageravano le cose positive e nascondevano quelle negative».

In fondo, la maggior parte di questa scivolosità risale al mancato riconoscimento da parte delle tre amministrazioni che ciò che stavano cercando di fare era una cosa difficile, ammesso che fosse possibile. Questo schema si è ripetuto negli ultimi mesi.

Quelli che volevano rimanere hanno disapprovato il ritiro americano, rimanendo però ambigui su ciò che rimanere avrebbe effettivamente comportato. Più o meno lo stesso, in altre parole.

Crescendo durante la Guerra fredda, ho imparato che gli Stati Uniti possono mantenere un impegno eroico per decenni, ma per questo è necessario creare un argomento strategico e convincente e un consenso tra il vasto pubblico.

Crescendo nell’età del Vietnam, ho imparato che ingannare sé stessi e l’opinione pubblica, sottovalutare la sfida, falsificare i fatti e combattere un avversario determinato mentre si tiene un occhio sulle vie d’uscita non finisce bene.

Crescendo in mezzo alla politica, ho imparato che se non si è onesti sulla propria politica e non la si difende, si finisce per perdere, e meritatamente.

Ecco perché, secondo me, chi è a favore della presenza americana in Afghanistan ha perso. Non mi hanno dato motivo di pensare che il modello di diniego e inganno sarebbe finito.

Biden ha avuto un ruolo nell’accusare e scaricare le colpe, il che non è ammirevole. Avrà lividi dolorosi per la decisione e il modo in cui l’ha eseguita, e così il paese. Ma per quanto riguarda la strategia complessiva, è stato lui a porre fine all’autoinganno e alle ambiguità. Dopo Trump, dovremmo sapere quanto questo conta.

Jonathan Rauch è autore di The Constitution of Knowledge: A Defense of Truth. Questo articolo è apparso sulla testata online Persuasion (traduzione di Monica Fava).

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