L’intervento della Suprema Corte israeliana, all’indomani dell’ennesimo sabato di proteste, con l’affermazione del divieto per il governo di dare istruzioni operative alle forze di polizia nelle manifestazioni in luogo pubblico, non contribuirà certo a distendere i nervi. Ormai abbiamo superato le undici settimane di proteste consecutive, con decine di migliaia di cittadini per le strade di Tel Aviv.

Ora, di capi del governo con processi per corruzione a loro carico che tentano di riformare la giustizia per indebolire la magistratura, noi italiani abbiamo un’esperienza di tutto rispetto. Non è necessario fare nomi. Però, almeno noi avevamo – e abbiamo, vivaddio – una costituzione, che sancisce a chiare lettere l’indipendenza del potere giudiziario, con tutta una serie di corollari che non è così facile sovvertire, per una maggioranza politica.

La questione costituzionale

In Israele, invece, una costituzione non ce l’hanno. Non ce l’hanno perché quando lo stato di Israele è nato, il dibattito sulla natura di quello stato era materia troppo viva da poter cristallizzare, e lo stato di guerra permanente in cui son presto precipitati ha suggerito di rinviare una vera e propria fase costituente, che in effetti di per sé richiede una certa pacificazione, interna ed esterna.

Da allora hanno adottato una serie di leggi fondamentali, in materie che per loro natura meriterebbero di stare in una costituzione formale, ma è solo una sentenza della Corte suprema, nel 1995, ad affermare la natura sostanzialmente costituzionale di quelle leggi, e dunque a sancirne una prevalenza gerarchica rispetto alle altre fonti.

E poi noi, in Italia, avevamo – e abbiamo – un’altra cosa, che in Israele ha invece uno statuto un po’ particolare, ed è una giustizia costituzionale: un giudice, cioè, che può rilevare la violazione della costituzione da parte delle scelte del Parlamento e del governo, arrivando addirittura ad annullarle. In Israele, il ruolo di giudice delle leggi se l’è assunto la Corte suprema, ma appunto: se l’è assunto, sempre nel 1995, senza però che nessuna fonte di diritto positivo lo preveda espressamente.

La scelta non è senza precedenti. Anzi, la grande storia della giustizia costituzionale nasce proprio con una vicenda simile: nel 1803 era stata la Corte suprema degli Stati Uniti ad affermare, per sé e per ogni giudice dell’ordinamento, il diritto a dichiarare incostituzionale una legge, senza che questo fosse previsto in costituzione o da nessun’altra parte, perché una legge che viola la fonte suprema dell’ordinamento is not law, non è una legge.

E la Corte suprema, nel 1803, aveva visto lontano, perché l’idea di una giustizia costituzionale – che ha impiegato tanto, beninteso, a farsi accettare in Europa, ma se ne son convinti più o meno tutti dopo gli orrori del XX secolo – si è rivelata il più efficace strumento di argine al potere delle maggioranze politiche. Non stupisce, quindi, che chi questi argini forse li soffre un po’ abbia, come prima ossessione, quella di eliminarla, o almeno contenerla.

Effetti e conflitti

La riforma contro cui da undici settimane protestano in Israele – va detto: nel silenzio quasi generale, e salvo qualche lodevole eccezione più di recente, dei nostri media – sembrerebbe andare proprio in questa direzione. Certo, questo a voler pensar male; ma qui sovviene il noto adagio sul pensar male che non occorre richiamare.

La proposta di Netanyahu, che dovrebbe arrivare ai passaggi finali in parlamento nel mese di aprile, in estrema sintesi, interviene su due cose. La prima è la modalità di nomina dei giudici, che sarebbe affidata a commissioni formate in maggioranza schiacciante da membri del governo, o comunque al governo graditi. La seconda, invece, è proprio la giustizia costituzionale, con la previsione per il parlamento di superare una decisione di incostituzionalità della corte suprema, con un voto a semplice maggioranza.

Diciamo che uno fa fatica a non pensar male. E, tra gli scenari che si possono immaginare dopo l’approvazione della riforma, due sono particolarmente inquietanti. Il primo rischio è quello di un conflitto istituzionale ad alta tensione, con la Corte suprema che interviene a dichiarare incostituzionale la stessa riforma giudiziaria, innescando un cortocircuito dall’esito imprevedibile. E il secondo rischio, sempre dietro la porta, è l’intensificarsi del conflitto con i palestinesi, che già si sentono minacciati dall’idea di un governo – e di quel governo – senza l’argine della corte suprema.

Non che la situazione al momento sia, d’altra parte, così serena. Il 28 febbraio, i capi delle chiese di Terrasanta hanno rilasciato un comunicato in cui denunciano la crescente spirale di violenza, a distanza da meno di un mese da un primo comunicato analogo, dopo che, solo in gennaio, si erano avuti quasi quaranta morti, trentadue palestinesi e sette israeliani.

Le proteste e – più delle proteste – le pressioni internazionali possono forse portare a qualcosa. È di ieri (20 marzo) la scelta di Netanyahu di modificare parzialmente il tiro, nel senso di prevedere che, all’interno delle commissioni di nomina dei giudici, il governo abbia una maggioranza non più di 7 a 4, ma di 6 a 5. É ancora poca cosa, ma potrebbe essere lo spiraglio per l’apertura di un compromesso politico, che sarebbe necessario per frenare l’avvicinamento di Israele all’area delle democrazie illiberali.

Fosco Maraini, nel suo Le pietre di Gerusalemme, ha scritto che «se il sangue fosse indelebile, Gerusalemme sarebbe rossa. Tutta rossa». Solo un sensato passo indietro di Netanyahu, forse, può evitarci l’ennesimo colpo di rosso.

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