Con l’inflazione che ha raggiunto il 7 per cento, il presidente Joe Biden ha firmato mercoledì, prima di Natale, un decreto esecutivo che prevede un rialzo salariale del 2,2 per cento che sarà attivo per i dipendenti federali civili a partire dal prossimo gennaio. Lo aveva già annunciato con una lettera ai leader del Congresso, dopo che già lo scorso aprile aveva imposto agli appaltatori del governo federale di pagare un salario minimo di 15 dollari. L’aumento è molto al di sopra di quello decretato da Donald Trump nel 2020, circa l’1 per cento, ma molto inferiore a quello del 2019, pari al 3,2 per cento.

Tutto questo però si inserisce in un anno, il 2021, dove la Bidenomics ha mostrato alcuni limiti, non soltanto quelli dipendenti dal fatto che alcuni provvedimenti come il Build Back Better abbiano faticato a passare, mostrando quanto fosse giusta l’osservazione di Peggy Noonan sul Wall Street Journal: non avrebbe funzionato «comportarsi come Roosevelt senza averne la maggioranza». Senza badare a chi vede il bicchiere mezzo pieno, come David Frum su The Atlantic, che vede un sostanziale successo delle politiche di Biden coi numeri risicati conquistati a gennaio 2021, c’è un tema di erosione di potere d’acquisto dei salari che nessuna politica di stimolo sembra intaccare. Anzi, c’è il rischio che l’inflazione ne aggravi la caduta.

Il sogno americano è più difficile

La percezione comune, non corretta fino in fondo, è che gli stipendi della classe media vengano da un decennio di stagnazione, aggravato dai risultati dell’ultimo anno, dove il potere d’acquisto è stato oggettivamente ridotto. Prendiamo ad esempio lo standard del benessere americano per decenni: lo stipendio annuale da 100mila dollari. Per decenni quella cifra ha rappresentato il raggiungimento degli obiettivi dell’American Dream: un buon lavoro, un’educazione di alto livello per i figli, una casa ampia nei sobborghi residenziali con tanto di doppia auto. Tutto questo ormai non è più possibile, a cominciare dall’abitazione. Secondo i dati dell’U.s. Census Bureau, oggi una prima casa costa il 39 per cento in più rispetto a quarant’anni fa.

Negli anni Cinquanta e Sessanta poi, il costo medio degli immobili residenziali oscillava tra gli 85mila e i 110mila dollari, utilizzando il moderno valore del dollaro. Oggi il costo medio di una casa è, secondo la Realtor National Association, associazione che raccoglie una parte degli immobiliaristi statunitensi, di circa 383mila dollari. Non solo: le case da comprare sono calate del 3,1 per cento nel corso del 2021. Accade quindi che professionisti di buon livello pensino ad affittare anziché ad acquistare, perché mancano le case da acquistare. In modo direttamente proporzionale, o quasi: una crescita del 13 per cento del prezzo delle case con un calo del 12 per cento degli immobili in vendita.

Lo stesso si può dire delle spese universitarie: nel 1991-1992 un quadriennio all’università costava 28mila dollari. Oggi invece, secondo uno studio di College Board, associazione no-profit che si occupa di accesso all’istruzione superiore, una retta di università pubblica (non parliamo quindi né di Ivy League né di altri istituzioni equivalenti) costa poco più di 10mila dollari di retta soltanto all’anno. Ogni studente finito il ciclo di studio quindi si ritrova in media con un debito di 32mila dollari che quindi contribuisce a un’ulteriore erosione del salario.

Unità e divisioni

(AP)

I singoli stati sono corsi ai ripari, implementando leggi sul salario minimo che superino i 7 dollari e 25 orari stabiliti a livello federale. La California e il Massachusetts guidano questa classifica, con 13 dollari. Ma anche alcuni stati piuttosto conservatori hanno introdotto un sistema che adegua i salari al costo della vita.

In Missouri e in Arkansas c’è un sistema di adeguamento annuale in atto: in entrambi i casi, il cambiamento è stato approvato per via referendaria nel 2018 con una maggioranza del 60 per cento circa. In Arkansas raggiungerà 11 dollari e 15 centesimi nel 2022, mentre in Missouri arriverà a 12 dollari nel 2023. La misura, ratificata da entrambi i governatori, in Arkansas ha incontrato l’opposizione dell’ala più liberista dei repubblicani, guidata dal senatore statale Bob Ballinger, che ha tentato di smontare la legge, rendendone facoltativa l’adozione. La proposta è stata bocciata da una vasta maggioranza di repubblicani.

Uno dei senatori federali, Tom Cotton, normalmente conosciuto per il suo conservatorismo adamantino, ha cercato di far approvare insieme con il suo collega Mitt Romney una legge che adegui lentamente il salario minimo federale a 10 dollari (non è poco: due stati, Wyoming e Georgia, hanno una soglia pari a 5 dollari) entro il 2025, a patto che non ne possa usufruire nessun migrante irregolare. Una proposta chiaramente irricevibile dai democratici. Però fa comprendere come anche nella Florida di quello che forse è il più trumpiano dei governatori, il colorito Ron DeSantis, la proposta di alzarlo a 15 dollari entro il 2026 sia passata lo scorso anno.

Una proposta quindi sulla quale ci può essere una larga convergenza. Le condizioni identitarie però sono ancora divisive. E sono quelle che bloccano il Congresso dall’agire anche su questioni come quella dei salari, dove il consenso per rialzarli è altissimo. Anche se Trump ha sempre sostenuto che le paghe “sono dannatamente troppo alte”.

© Riproduzione riservata