Si distingue anche stavolta, Viktor Orbán: al summit delle democrazie organizzato da Joe Biden c’è spazio per l’indemocratico Jair Bolsonaro, per il governo autoritario delle Filippine, per il Pakistan e la Repubblica Democratica del Congo, ma non per il premier ungherese. L’Ungheria è l’unica a essere sia membro della Nato che dell’Ue e a finire esclusa.

Orbán è una figura troppo esposta, anche negli Stati Uniti, per poter passare inosservata. «La scelta se invitare o meno, tra i paesi Ue, Polonia e Ungheria è stata oggetto di intensa attività lobbistica e di scontri all’interno della stessa amministrazione Usa», dice l’analista ungherese Daniel Hegedüs, che per il German Marshall Fund si occupa proprio delle derive autocratiche a est. «Alla fine la Polonia è stata inclusa, Orbán no».

Un simbolo scomodo

Budapest è diventata il crocevia, e Orbán il modello, per la destra trumpiana che va a braccetto con i sovranisti europei. Nei think tank budapestini, nel Danube Institute come nel Mathias Corvinus Collegium, che è privato ma è irrorato di soldi pubblici dal premier ungherese – un miliardo e mezzo di euro, l’1 per cento del pil del paese – convergono i zemmouriani dalla Francia, i meloniani dall’Italia. E dagli Stati Uniti, personaggi come il giornalista Rod Dreher, che scrive per The American Conservative, il cui obiettivo è «ridare una bandiera al movimento conservatore».

Orbán è in sé una bandiera, e infatti Tucker Carlson, volto di FoxNews e di quella destra, ad agosto non si è limitato a intervistarlo: ha addirittura trasferito la trasmissione a Budapest per una settimana.

Oltre alle connessioni sotterranee tra le destre europea e americana, ci sono quelle dichiarate: Orbán è un simbolo imbarazzante, per la presidenza Usa.

Il dipartimento di stato

Quello tra Orbán e la Casa Bianca è un rapporto per tradizione complicato. Già nel 2001 il rapporto tra il premier e l’establishment americano si è incrinato per ragioni di politica estera.

All’epoca il dipartimento di Stato ha espresso perplessità in un promemoria riservato e ha mandato a chiedere se «a Budapest c’è ancora qualcuno che legga l’inglese». Nel luglio 2014, quando Orbán infila la «democrazia illiberale» in un suo celebre discorso, persino il campo conservatore si allarma.

Ed è ancora una volta dal dipartimento di Stato che parte l’affondo, tramite l’ambasciatore Usa a Budapest, André Goodfriend, uomo per aree di crisi, con esperienze in Russia e Siria.

«All’epoca si parlava del “piano di marzo” 2015 contro Orbán come un dato di fatto», dice Stefano Bottoni, autore del libro Orbán. Un despota in Europa.

Anche nel 2021, con le elezioni ungheresi imminenti e un leader d’opposizione, Péter Márki-Zay, ben connesso con Washington, dal dipartimento di Stato sono arrivate le più forti spinte per escludere il premier.

«Il segretario di stato Antony Blinken è da sempre duro con Orbán, anche per tradizione familiare. L’archivio della Open Society di George Soros è intitolato a Vera e Donald Blinken».

Donald, padre di Antony, è stato ambasciatore Usa in Ungheria. Anche l’analista Daniel Hegedüs riporta che «nel dibattito interno all’amministrazione Usa su se invitare Varsavia e Budapest, il Pentagono riteneva che i membri Nato andassero coinvolti, il dipartimento di stato era scettico su entrambe le capitali».

Ma sull’inclusione della Polonia «un ruolo cruciale gioca il posizionamento geopolitico: per gli Usa è alleato strategico, e nonostante i problemi di democrazia interna, all’estero ospita l’opposizione bielorussa, vuole una stabilizzazione dell’Ucraina...». Si pone come argine a Putin. Orbán invece rappresenta «il cavallo di troia di Russia e Cina in Europa».

Anche se lui a fare da escluso non ci sta, e dice che senza di lui e senza l’unanimità l’Ue non può parlare con gli Usa a voce unica.

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