A meno di una settimana dall’election day, più di 70 milioni di americani hanno già votato. Nonostante il voto anticipato non sia una novità per gli Stati Uniti, quest’anno i numeri sono da record. Secondo le previsioni di Michael McDonald, professore dell’Università della Florida che ha lanciato l’US Elections Project, potrebbe votare il 65% delle persone aventi diritto, cosa che non accadeva da oltre un secolo.

In generale quest’anno il voto sembra stia assumendo caratteri epici, per la sua importanza storica ma anche per le avversità che gli americani devono affrontare per esprimerlo. Prima tra tutte la pandemia, poi un sistema postale già affaticato e messo a dura prova dall’amministrazione Trump, e infine - cosa non nuova - le strategie per sopprimere il voto di intere categorie di persone, come gli ex detenuti. A chiudere il quadro c’è un presidente, Donald Trump, che dissemina timori su presunte frodi elettorali.

Nonostante tutto nelle ultime settimane più di 20 milioni di persone hanno affrontato file, anche di ore, per consegnare la propria scheda in uno dei possibili centri o punti di raccolta (a volte si tratta di semplici casse posizionate all’aperto in punti strategici della città). Altre 50 milioni di persone si sono invece affidate al servizio postale, cosa che a partire da oggi - visto l’avvicinarsi dell’election day - potrebbe essere rischioso. In alcuni stati, come il Wisconsin e la Pennsylvania, che tra l'altro sono cruciali per l’esito delle elezioni, saranno contate solo le schede arrivate a destinazione entro il 3 novembre. In altri stati, come la Louisiana, il limite massimo è il giorno precedente. In poco meno della metà degli stati saranno ancora valide le schede arrivate entro una settimana dal 3 novembre, a patto che siano state inviate nei termini. Questi ultimi stati rappresentano il 59% dei voti del collegio elettorale e questa è la ragione per cui è possibile che ci sia da attendere qualche giorno per il risultato definitivo.

L’efficienza del servizio postale sta dunque assumendo un ruolo cruciale. Proprio ieri, martedì 27 ottobre, una corte federale ha ordinato al direttore delle poste, Louis DeJoy, di assicurarsi che venissero ripristinati i turni extra di lavoro del personale, per evitare ritardi che potrebbero influenzare l'esito del voto. DeJoy, che è stato nominato a capo delle poste la scorsa primavera – e che è un cosiddetto megadonor di Trump, ovvero gli ha donato milioni di dollari – aveva infatti messo in piedi una serie di riforme per tagliare i costi di gestione. Tra queste ci sono la cancellazione di turni per la consegna, lo smantellamento di macchinari per lo smistamento, e la rimozione di caselle postali.

Che le poste americane stiano affrontando una annosa crisi finanziaria non c’è alcun dubbio, ma la tempistica con cui DeJoy ha ordinato i tagli ha fatto pensare ad una mossa politica, più che ad una strategia economica. È noto infatti che ad avvalersi del voto anticipato siano soprattutto gli elettori del partito democratico. In ogni caso l’indebolimento del servizio in questo momento storico suona come un attacco alla democrazia americana: il servizio postale americano è nato insieme ad essa, nel 1775, con l’ambizione sociale e politica di essere uno strumento di unione di un paese in cui il 90% del territorio è classificabile come rurale.

Altri attacchi a Trump sul fronte finanziario

Il New York Times continua a pubblicare dettagli sulla situazione finanziaria di Trump, questa volta con un’inchiesta che spiega come abbia evitato di pagare 287 milioni di dollari in debiti accumulati per la costruzione di un grattacielo di 92 piani a Chicago, inaugurato nel 2008. Secondo il quotidiano di New York, i legali di Trump sarebbero riusciti a fare in modo che la banca e il fondo di investimento a cui doveva gran parte della somma concedessero un condono.

Tuttavia Trump avrebbe dovuto pagare quantomeno le tasse su quella cifra, cosa di cui il New York Times, che ha ottenuto i documenti fiscali relativi a quegli anni, non ha trovato prova.

Trump questa mattina non ha fatto attendere la sua risposta via Twitter, sostenendo di essere stato in grado di «fare un grande affare con numerosi prestatori» per la costruzione di un “bellissimo” grattacielo. «Questa cosa non mi rende un tipo intelligente invece che cattivo?», ha chiesto ai suoi 87 milioni di followers.

Intanto anche il Washington Post sferra il suo attacco a Trump sul fronte economico, rivelando che durante i quattro anni del suo mandato da presidente avrebbe usato milioni di dollari di denaro pubblico per accogliere ospiti istituzionali nelle sue proprietà.

In particolare il quotidiano fornisce i dettagli dei soldi dei contribuenti spesi in occasione della visita di un paio di giorni del primo ministro giapponese, Shinzo Abe, nell’aprile del 2018 nel resort di Mar-a-Lago, in Florida, che Trump stesso chiama la «Casa Bianca del sud»: 13.700 dollari per le stanze, 16.000 dollari per cibo e vino e 6.000 per le decorazioni floreali.

Inoltre, notano i giornalisti del Post con un po’ di ironia, è stato richiesto il rimborso di 3 dollari per ogni bicchiere d’acqua bevuto durante le riunioni. In generale Trump sarebbe riuscito a far confluire più di 2,5 milioni di dollari dalle casse federali alle sue società per coprire questo tipo di spese. La mossa, per quanto discutibile, non è illegale, ma si scontra con quello che disse agli elettori durante la campagna del 2016: «Se dovessi vincere potrei non rivedere più le mie proprietà...non avrò più tempo di giocare a golf».

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