Correva l’anno 1988, e per la prima volta un giovane e promettente diplomatico di nome Benjamin Netanyahu, ex direttore di marketing e responsabile pubblicitario di una ditta di mobili, si candidava in Israele nella lista del partito conservatore Likud. Alla domanda del navigato giornalista israeliano Yoram Ronen se un giorno sarebbe voluto diventare primo ministro, Netanyahu rispose con prontezza: «Primo Ministro? Certo che no!»

Dopo 15 anni da premier, a capo di 5 governi diversi (il primo sarebbe arrivato nel giugno 1996), Netanyahu prepara in queste ore la battaglia politica per rimanere nella sua residenza istituzionale di Balfour street, nella capitale Gerusalemme.

Anche questa volta, dopo che lunedì in Israele si sono tenute le quarte elezioni in meno di due anni, non avrà vita facile. Il proporzionale classico israeliano, e i numerosi nemici personali seminati nel suo stesso campo politico in anni di leadership spregiudicata, rendono arduo per “Bibi” il compito di ottenere la fiducia di 61 deputati su 120 alla Knesset.

Nel classico discorso notturno dopo la giornata del voto, Netanyahu non ha però espresso preoccupazione. «Abbiamo raggiunto un risultato magnifico, siamo il partito più grande in Israele con ben 30 seggi, con il primo inseguitore senza neppure il numero 2 nella casella delle decine», ha detto, alludendo al leader dell’opposizione Yair Lapid e ai suoi soli 17 seggi.

Ancora più scarso il risultato dell’altro temuto avversario, l’ex dissidente interno del Likud Gideon Saar (6 seggi), di gran lunga al di sotto delle aspettative. «Nei prossimi giorni mi impegnerò a formare una coalizione, e avete visto con i vaccini che quando mi impegno non risparmio nessuno sforzo», ha detto.

Il segreto dei vaccini

An election campaign billboard for the Likud party that shows a portrait of its leader Prime Minister Benjamin Netanyahu, left, and opposition party leader Yair Lapid, is defaced with Hebrew that reads, \"go home,\" in Ramat Gan, Israel, Sunday, March 21, 2021. Israelis head to the polls on Tuesday for what will be the fourth parliamentary election in just two years. Once again, the race boils down to a referendum on Prime Minister Benjamin Netanyahu. (AP Photo/Oded Balilty)

Proprio i vaccini sono stati la chiave dell’ennesima campagna elettorale di Netanyahu. Dal 7 marzo Israele ha riaperto forse definitivamente la sua economia, dopo una campagna vaccinale lampo senza pari nel mondo. I milioni di dosi Pfizer-BioNTech ottenute da Netanyahu già dagli ultimi mesi dello scorso anno, pagando un prezzo elevato e promettendo alla multinazionale l’accesso quasi senza riserve ai dati della campagna, hanno già immunizzato circa la metà della popolazione.

L’operazione è stata resa possibile dalla dimensione di Israele, equivalente a quella della regione media italiana, e dalla popolazione di soli dieci milioni di abitanti. E dalle quattro casse di mutua pubbliche in competizione fra loro, un retaggio dell’epoca socialista antecedente la fondazione dello Stato, che hanno garantito una distribuzione efficiente e capillare sul territorio. Netanyahu si è appropriato dello slogan «Hozrim lahaim» (si torna alla vita) del ministero della Salute, e quando la magistratura ha denunciato l’appropriazione indebita lo aveva già stampato sui poster elettorali di tutto il paese.

Dalla sua c’erano anche i dati dell’economia. Nell’annus horribilis 2020, il Pil si è contratto soltanto del 2,4 per cento, il dato migliore fra tutti i paesi Ocse, dicono le stime del Central Bureau of Statistics (CBS). Lo shekel israeliano ha raggiunto a metà gennaio il valore record di un quarto di secolo, cioè 3,12 sul dollaro americano, le start-up hanno brillato nella pandemia, e il conto delle partite correnti è rimasto solidamente in surplus  (+5,8 del Pil nel 2020). Sulla scorta di questi dati, e alla luce della riapertura lampo dell’economia grazie ai vaccini, un documento interno della società di valutazioni finanziarie londinese IHS Markit prevede per Israele una crescita del 4,8 per cento nel 2021. Una manna dal cielo per Netanyahu.

Nonostante gli scandali

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, center, wearing a protective face mask, waves after delivering a speech to supporters following the announcement of exit polls of the Israeli parliamentary elections at his party's headquarters in Jerusalem, Wednesday, March. 24, 2021. (AP Photo/Ariel Schalit)

Ma per capire l’origine di questa nuova, ennesima affermazione di Netanyahu, arrivata malgrado l’impatto dei suoi processi per corruzione, vale la pena immergersi di nuovo nel suo discorso. «Siamo appena usciti dalla terza guerra mondiale, la guerra del coronavirus. Siamo numero uno al mondo per i vaccini, e lo siamo diventati per tutti, arabi ed ebrei, laici e religiosi, gente di destra e di sinistra. Per tutti teniamo duro contro l’Iran. Così come per tutti abbiamo portato a casa gli storici accordi di Abramo, possiamo e dobbiamo firmarne di nuovi», ha detto, facendo riferimento agli accordi di pace con Emirati Arabi Uniti, Bahrain, Sudan e Marocco.

Gli accordi di pace sono stati accolti con grande soddisfazione da tutti i settori del pubblico israeliano. La Lista Unita, il partito a maggioranza araba, ha votato contro alla Knesset perché non prendevano abbastanza in considerazione la questione palestinese. Ma diversi sondaggi sul territorio hanno rivelato che la popolazione araba, pari al 21 per cento del totale, li ha visti con favore. Tanto che Netanayahu, che negli ultimi anni aveva preso di mira la minoranza con diverse uscite xenofobe, ha deciso di inseguire anche il loro voto nella campagna.

Ha costellato le cittadine della Galilea con manifesti inneggianti ad Abu Yair, patronimico arabo per “padre di Yair” (Netanyahu). E ha cambiato registro nei suoi discorsi. «Se arabi ed ebrei possono danzare insieme nelle strade di Dubai, possono danzare anche qui, nello stato di Israele», ha detto in uno storico discorso a Nazareth lo scorso Gennaio.

Riscrivere le regole, sempre

Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu, center left, tours the Mahane Yehuda market while campaigning a day before national elections, in Jerusalem, Monday, March 22, 2021. The March 23 vote is Israel’s fourth parliamentary election in two years. (AP Photo/Oren Ben Hakoon)

Il potere di Netanyahu nel plasmare il discorso pubblico in Israele è enorme: riesce sempre a riscrivere le regole del gioco. Dalla nascita di Israele nel 1948, nessun governo ha incluso i partiti che rappresentano la componente araba: soltanto in una occasione, all’epoca del primo ministro laburista Yitzhak Rabin, i rappresentanti della minoranza hanno offerto un sostegno esterno al governo. Chiunque negli anni abbia suggerito di coinvolgerli di più nella politica che conta, è stato tacciato di essere un traditore, fiancheggiatore della quinta colonna che protegge il nemico palestinese. In primis da Bibi Netanyahu. Ma se è lo stesso Netanyahu a cambiare traiettoria, allora le cose diventano diverse. Mansour Abbas, leader della lista Araba Unita Raam, di orientamento islamista, si è staccato dalla Lista Unita in seguito alle avances di Bibi. Da lui e dai suoi cinque seggi potrebbe arrivare la stampella decisiva per il nuovo governo di Netanyahu, secondo la formula legge per l’immunità di Netanyahu ai processi in cambio di finanziamenti per le regioni arabe.

D’altra parte Netanyahu, che non guarda in faccia nessuno in politica anche se si tratta di degli alleati, ha perso per strada diversi amici e partner naturali.

Avigdor Lieberman e Gideon Saar, leader rispettivamente di “Israele è casa nostra” e “Nuova speranza” (7 e 6 seggi), non lo scartano certo per ragioni ideologiche: hanno come lui posizioni fortemente di destra. Lieberman da anni considera gli arabo-israeliani una quinta colonna dei palestinesi, e sostiene un loro trasferimento dall’altra parte del muro.

Saar, da sempre dissidente di Netanyahu dentro al Likud, è noto per la sua opposizione al ritiro da Gaza nel 2005 e alla formazione di uno stato palestinese. Ma sia l’uno che l’altro hanno motivi forti, personali e politici, per mettersi di traverso ai piani di Bibi, a costo di provocare un nuovo stallo politico.

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