Włodawa. Trecento metri dal fiume Bug, limite naturale tra Polonia e Bielorussia. Bombardamenti e raffiche di mitragliatrici rompono il silenzio. «Sono le continue esercitazioni militari dei soldati presenti nella caserma bielorussa distante venti chilometri», afferma il sindaco Wiesław Muszyński, «è da settimane che vanno avanti così. Tanto rumore serve per far salire la tensione. Ogni giorno due aerei da ricognizione monitorano il confine. Siamo molto preoccupati. Basta un errore per far scoppiare la guerra tra Nato e Russia».

Dopo aver educato i satelliti europei orientali all’ideologia economicista per scongiurare che pensassero alla strategia, negli ultimi anni Washington ha chiesto loro di assumere una postura più assertiva, anteponendo l’interesse geopolitico alla consueta visione minimalista. Consapevoli del loro ruolo nello scacchiere continentale per posizionamento geografico e innata pulsione antirussa, gli Stati Uniti hanno appaltato a polacchi, romeni e baltici il contenimento di Mosca. L’ampliamento della Nato a est per consolidare l’egemonia americana in Europa e assecondare le esigenze securitarie dei paesi appartenenti all’ex spazio sovietico ha finito per accerchiare l’Orso russo fin quasi a soffocarlo. La reazione moscovita, esplicitata calpestando le ambizioni degli ucraini, segnale di una intrinseca debolezza, ha fatto riaffiorare antiche paure.

Incubi polacchi

L’invasione dell’Ucraina ha prodotto immediatamente scene di isteria collettiva nelle cittadine polacche prossime al confine. Non solo per la crisi migratoria. 

Storicamente fagocitata dai potenti vicini, la Polonia ha subìto tre pesanti spartizioni nel Settecento. Regno smembrato alla mercé dei rivali, rinato come stato satellite dell’impero napoleonico, in seguito divenuto provincia della Russia zarista. Costretta nell’orbita sovietica, dopo il 1945 ha dovuto rinnegare la sua identità. La conquista dell’indipendenza e l’ingresso nella sfera atlantista hanno poi rigenerato il sentimento collettivo. Dalla sottomissione allo straniero alla sovranità nazionale, con il benessere dato dai fondi europei e la protezione garantita dall’egemone a stelle e strisce.

Oggi Varsavia ricopre un ruolo strategicamente rilevante nell’architettura strategica continentale. Perno del Trimarium, sa di poter contare sul sostegno americano in quanto bastione orientale a difesa dell’Europa e punta di lancia dello schieramento atlantico in funzione antirussa. In pieno risorgimento nazionale sogna un maggiore protagonismo, tentando di costruire una propria sfera d’influenza tra Danzica e Costanza. L’invasione russa, però, ha materializzato incubi mai dimenticati.

Jakub, un giovane soldato polacco di 23 anni incaricato di presidiare la frontiera con l’Ucraina presso Budomierz, non ha dubbi: «La Russia è nostra nemica». I cittadini della Federazione, «facilmente influenzabili dai vertici dello stato tramite una subdola opera di propaganda», nutrono «una profonda nostalgia per il loro rango di potenza».

Per difendersi dall’ineludibile cogenza strategica russa, incardinata nella necessità di possedere una sfera d’influenza che ne aumenti la profondità difensiva corroborandone status e prestigio geopolitico, Jakub rivendica «decisamente l’appartenenza alla Nato», piuttosto che all’Unione europea: «Con i paesi occidentali c’è incomunicabilità. Sono troppo interessati ai legami economici con Mosca senza comprendere i nostri timori».

Schiacciata tra Russia e Germania, priva di barriere orografiche, la Polonia è obbligata a ricorrere all’ombrello difensivo americano e a irrobustire le proprie difese. Recentemente è stato presentato un piano di potenziamento delle forze armate e di progressivo incremento dei fondi nel settore bellico, fino al possibile raggiungimento del 3 per cento del pil nel 2023. Obiettivo: diventare il perno dello schieramento militare a stelle e strisce in Europa e tradurre tale ruolo in concreta influenza geopolitica tra i paesi dell’est.

Non stupisce che le posizioni più forti davanti all’acuirsi della crisi ucraina le abbia assunte proprio Varsavia, favorevole a introdurre sanzioni draconiane, proponendosi come epicentro logistico per trasferire armi in Ucraina, siglando un accordo militare con Londra e Kiev, ipotizzando un allargamento dell’Alleanza atlantica.

«Bisogna favorire l’ingresso nell’Unione europea e nella Nato di Svezia, Finlandia, Georgia e Moldavia, indipendentemente dal pieno rispetto dei requisiti necessari», dice Muszyński, sindaco di Włodawa. «Anche gli ucraini devono essere accolti nella famiglia europea. Dal 2014 la loro identità si è enormemente rafforzata. Questa rinnovata consapevolezza consolida la loro resistenza e sono sicuro che gli permetterà di respingere il nemico. Putin ha fatto male i suoi calcoli».

L’Europa di mezzo

Lituania, Lettonia ed Estonia, terrorizzate dall’essere stritolate dall’Orso russo, sono in prima linea nel sostegno a Kiev. Vilnius, quest’anno, ha stanziato 1,2 miliardi di euro (il 2,05 per cento del Pil) nella difesa, ha accolto un cospicuo numero di soldati americani, ha rifornito la resistenza ucraina di missili terra-aria Stinger e acquisterà ulteriori missili anticarro Javelin dagli Stati Uniti per 40 milioni di dollari. Per i baltici la relazione atlantica è essenziale per preservare l’indipendenza. La cooperazione europea fondamentale per la modernizzazione infrastrutturale e lo sviluppo economico.

La Romania, bastione meridionale del fronte antirusso, accoglie gli ucraini per manifestare lealtà al blocco occidentale nella speranza di ottenere maggiore protezione da parte americana, elevandosi ad alfiere di Washington nella regione balcanico-eusina. Bucarest rappresenta un eccezionale deterrente contro l’assertività russa, ospitando nella base di Deveselu lo scudo missilistico Aegis Ashore.

Tuttavia, la conquista russa dell’isola dei Serpenti, distante solo 45 km dal territorio romeno, pone direttamente il paese Nato sotto il tiro dei sistemi d’arma moscoviti. Per Bucarest è di vitale importanza garantire la sicurezza militare della Moldavia, la cui stabilità interna è minacciata dall’irredentismo separatista filorusso della Transnistria, galvanizzato dall’esuberanza moscovita.

L’Ungheria, storicamente restia a solidarizzare con Kiev, si è rifiutata di inviare armi alla resistenza ucraina con la giustificazione di difendere la minoranza magiara residente nella Rutenia subcarpatica, vittima a suo giudizio di discriminazioni linguistico-culturali. Ad ogni modo, se all’inizio di febbraio il primo ministro ungherese, Viktor Orbán, si era recato a Mosca per discutere di cooperazione energetica, dopo l’avvio delle operazioni belliche si è compattato con gli alleati europei, rinunciando all’equidistanza diplomatica con Mosca e aprendo le porte a migliaia di profughi. Budapest può cogliere l’occasione per ripulire la sua immagine dalle accuse di Bruxelles sul rispetto delle norme e rinnovare la sua fedeltà agli Stati Uniti, che l’avevano enfaticamente esclusa dal forum delle democrazie per punirla dell’ambiguità nei rapporti con il Cremlino.

Il terrore di fronte al revanscismo russo sostanzia l’inestirpabile volontà degli europei centrorientali di coltivare il ricordo del passato. Di rafforzare la pedagogia nazionale con la promozione del patriottismo, la militarizzazione della società, la commemorazione di festività volte a esaltare lo spirito collettivo.

Riluttanti ad accettare le norme europee, ree di condurre la popolazione nel post-storicismo, diminuendone la bellicosità indispensabile per contrastare l’aggressività russa, questi popoli si ergono a fortezza del fianco orientale della Nato. Costretti a stare sempre all’erta. Obbligati a mostrarsi satelliti leali dell’egemone americano. Impauriti delle mire espansionistiche russe. Terrorizzati di essere nuovamente divorati dalla storia.

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